lunedì 27 giugno 2016

Un sogno insolito



Paolo Demuru, "Dante e Beatrice", acquerello, 2016



L’altra notte per me è stata piena di sogni… eh sì, i sogni spesso sono curiosi perché si configurano in auspici o in ricordi nostalgici oppure sconfinano nella sfera dell’impossibile. 

Ero in un luogo a me familiare, che però non so proprio precisare, e vidi giungere un uomo sulla cinquantina con passo sicuro e cadenzato; coperto da una vestaglia lunga che gli dava un aspetto dignitoso e quasi regale. Lo sguardo era meditabondo, l’occhio vivo e penetrante, la fronte avvolta in un telo colorato e al braccio sinistro tre libri

Era accompagnato da una donna elegante e sinuosa, leggera e gentile, coperta d’un velo bianco e un abito rosso sotto un mantello verde, parlava a voce bassa e con il sorriso. 

L’uomo dal saggio aspetto, parlava poco ma asseriva assai, concedeva più tempo all’ascolto che alla parola…


Come li vidi avvicinare feci un passo indietro ma l’uomo al quale pareva che nulla sfuggisse, arrivato di fianco a me voltò lo sguardo e con voce sensuale e avvolgente mi disse in buon fiorentino:


-Ovvia!, visto che tu t’hai tradotto ’n gallurese la mi’ Comedìa mettine qualche terzina nel tu’ blog, non si sa mai ch’altri se ne ‘nnamori, visto che nelle scole m’han quasi dimenticato; oh quanto mi garba star un po’ tra la tu’ gente, o per meglio dir su la tu’ collina, tra gli amici che tu hai testé celebrato…-


Mentre mi apprestavo timidamente a rispondere la saggia figura, proferite affettuosamente queste parole, sparì e così anche quella  dell’avvenente compagna. 

Rimasi solo a meditare in un bel viale tra grossi alberi dove una flebile brezza componeva tra le cime più alte dei pini un lontano concerto di violini mentre ai lati della pista, tra erici, lecci, lavanda ed elicriso, vedevo svincolarsi da blocchi di basalto grigio volti che  mi apparivano già visti. Però sorpreso mi chiesi: come? Blocchi di basalto tra i graniti? 

Ebbi un sussulto e quasi mi svegliai. Nel sonno residuo riuscii a ricordare quel saggio e quella bella dama, di lui ben più giovane che l’accompagnava e conclusi: ma questi forse in qualche occasione li ho conosciuti e, dovrei assecondare…



22  Eu ghjà vidis’a lu dí cumincendi

 la palti d’orienti tutta ruiata,

e ill’alti palti sirenu lucendi;



25  e cara di soli pa alzann’umbrata,

cussì ben’attemparata da umori

e da l’occhj umanu suppultata:



28  cussì ‘ndrent’a chissa neula di fiori

chi da man’agnelichi alzà ni duìa

falendi ‘ndrent’e fora mori mori,



31  subbra ‘ candidu telu cinta d’ulia

femina parisi, suttu ‘eldi mantu

tutta ‘istuta ‘llu culori di fiama ‘ia.     

         

(Purgatorio,  canto XXX vv. 22-33)



Paolo Demuru

venerdì 24 giugno 2016

La frutta di stagione (criasgia e fichi d’agliola)




Paolo Demuru, La raccolta delle ciliegie, acquerello, 2016
  
Quand’ero fanciullo le botteghe e il mercato nei paesi non si riempivano di frutta di ogni specie quasi tutto l’anno. La presenza di frutta era relativa e aveva carattere locale e stagionale.
Dopo qualche mandarino per Pasqua attendevo con ansia le prime ciliegie (la criasgia).

Con l’arrivo delle giornate soleggiate e  lunghe andavo a vedere tutti i giorni l’albero del ciliegio; ne osservavo i frutti  piccoli, verdi e duri e appena li vedevo ingrossare e cambiare colore facevo immaginaria conta dei giorni restanti all’assaggio sul campo.

Osservavo i rami divenire sempre più pesanti, sempre più bassi e a portata di mano mentre il frutto virava dal giallo al rosso chiaro e infine a quel rosso scuro tipico della  giusta maturazione, via spianata a quell’attesa prova. I primi assaggi non prevedevano lo scarto dei semi e mi chiedo ancora se mai avessero agito da pulitori del mio docile intestino o avessero arrecato altro beneficio, poiché di fatto non ricordo nessun effetto negativo.

In queste contrade galluresi, la ciliegia era il primo frutto di stagione, gustoso e colorato che si poteva cogliere direttamente dall’albero, a testimoniare l’aumento di quel tepore che concludeva la primavera.

La maturazione delle ciliegie era un evento sociale.  Anche la maestra del villaggio si faceva trasportare dall’idea di accompagnare i bambini a farne una abbondante scorpacciata in qualche albero vicino. 

Tutti ne beneficiavano, nessuno escluso; chi non possedeva alberi spesso ne riceveva almeno un cestino pieno in dono dal vicino, dal compare o dall’amico. Dai paesi s’incamminavano frotte di donne, all’occasione sorprendentemente  gentili e riverenti, verso le campagne ricche di alberi carichi di frutti porporini, per farsene larga provvista.

Altri frutti che, dopo breve intervallo, si presentavano nella loro prodigiosità erano i fichi a giugno (fichi d’agliola o di santu Ghjuanni), attesi e graditi; questi erano capaci di addolcire il palato e l’appetito, verdi o neri che fossero, ma la priorità, la sorpresa era sempre riservata alle ciliegie, forse più umili, ma cariche di tanta leggiadria.

Paolo Demuru

mercoledì 22 giugno 2016

Il fidanzamento (lu spalisugnu e l’abbracciu)





In queste aree della Gallura, seppur isolate, le tradizioni non erano meno sentite e meno rispettate che altrove; anzi, gli usi e i costumi hanno sempre assunto larga osservanza specialmente sul versante della formazione della famiglia e sugli indirizzi che portavano ad essa. Volendo ricordare il fidanzamento, o quei preliminari cerimoniosi che dovevano portare al matrimonio vero e proprio, non si può fare a meno di parlare di quell’incontro ufficiale o spalisugnu (dal verbo spalisà, rendere palese) che, attraverso la presenza dei rispettivi genitori ufficializzava i sentimenti di un giovane nei confronti della giovane con la quale  auspicava convolare a nozze.


Balli familiari, carnevalate o altre feste erano occasione d’incontro fra giovani capaci di sviluppare amicizie e simpatie, anche tacite o non ancora espresse, a mettere in moto i genitori di un giovane verso la dimora della fanciulla per esprimere le aspettative o intenzioni del figliolo. Varie e molteplici erano le motivazioni di fondo che davano inizio al decisivo passo: condizione sociale del giovane, patrimonio, portamento, condotta e serietà potevano essere  buon curriculum in attesa di riscontro.



In momenti un po’ lontani, a tale approccio, non era indispensabile neanche la presenza dei presunti innamorati, ma il colloquio si consumava tra uno scambio di intenti fra adulti e, se vi era consonanza fra le parti, questa poteva essere già motivo di spalisugnu.



I rispettivi genitori, nell’intimità del proprio vivere, provvedevano a fare buona opera di coinvolgimento e convincimento verso i propri figliuoli che questa cosa  “s’avrebbe avuta da fare” per ragioni di opportunità, di rango, e se poi d’amore anche meglio. L’appetito sarebbe venuto mangiando, quanto più saggiamente e risolutamente si sarebbe preparato il desco.



Altra tappa successiva era l’abbracciu: cerimonia più ufficiale che prevedeva invitati  e sovente anche la pricunta (domanda o richiesta); questa consisteva nel far precedere il pretendente da un suo fidato che avrebbe chiesto di poter accedere con l’amico che seguiva alla casa della spasimante con una sorta di motivazioni che esponeva all’uomo che era alla porta. Il colloquio si concludeva con il permesso d’ingresso, l’abbraccio tra i due giovani amanti e la consegna di un anello da parte del giovane alla sua preferita.



Il dovere che attendeva la nuova coppia era sacro e profondo e doveva essere atteso con tutte le forze; esso preludeva al rinnovo di generazioni cariche di volontà ed entusiasmo per consegnare degnamente al riposo eterno le vecchie, quando logore e stanche.


Nel faticoso cammino non mancavano sorprese ed inciampi ma, in quanto a correre, si era più lenti di oggi; la lentezza faceva rima con saggezza.



Paolo Demuru

venerdì 17 giugno 2016

L’alveare (lu Bugnu)




Tra l’allevamento minuto possiamo annoverare quello delle api che fin dalla notte dei tempi è celebrato anche nella bibbia; l’uomo ha seguito con stupore ed interesse le api traendone dal suo allevamento il dolcificante più naturale e più nobile. Oggi non si parlerà del dolce nettare ma dell’alloggio che l’uomo delle nostre aree riservava al prodigioso insetto. 

Qui in Gallura, tra maggio e giugno si presenta il momento opportuno per la scorzatura della quercia da sughero. Il contadino sceglieva il tronco adatto: dritto , liscio e che presentasse una corteccia sugherifera uniforme e compatta. Procedeva alla scorzatura eseguendo un taglio orizzontale alla base del tronco ed altro simile nella parte superiore. La cosa più delicata era procedere a un solo taglio verticale e adoperarsi per estrarre la corteccia senza farle subire danni: praticamente un bel cilindro. Questo era rifinito alla base e tagliato a un’altezza di circa sessanta centimetri. Il diametro interno ideale era di quaranta centimetri, poco più, poco meno. 

Rifinito il taglio superiore sempre con arnesi ben affilati si procedeva alla preparazione del coperchio ricavandolo da una lastra di sughero resa ben piatta dopo essere stata sottoposta al peso di massi. Era necessario ricucire il taglio verticale al cilindro con dei chiodi abilmente preparati in legno di olivastro o meglio ginepro, più aromatico. Anche il coperchio veniva bloccato con un paio di chiodi e rinforzato da doppia lastra affinché lu bugnu fosse ben riparato da umidità, caldo e freddo. Nella base del cilindro si doveva eseguire un pertugio triangolare di piccola dimensione: era l’ingresso, o il passaggio delle api. 

La fatica non era ancora ultimata poiché prima di invitare lo sciame a prendervi dimora bisognava avere l’accortezza di infilare due listelli a croce passanti a metà altezza del cilindro. Questo sarebbe servito da appoggio per la struttura dei favi che la famiglia sarebbe andata subito costruendo in profumata cera.  Contemporaneamente una squadra di abili api operaie avrebbe provveduto alla sutura di tutte le fessure della corteccia e alla ricucitura laterale  fra coperchio e cilindro con della propoli bottinata tra i teneri germogli degli alberi. Infine al buon amatore delle api non restava che strofinare all’interno del rustico alveare un bel mazzo di lavanda per renderlo aromatico e ben accetto dallo sciame a cui si andava a rivolgere cortese invito. 


A questo punto  la buona permanenza alle migliaia di infaticabili inquiline era dovuta e non avrebbero tardato a onorare degnamente il canone con dolce e aurea moneta, esente da qualsiasi caso di svalutazione!



Paolo Demuru

mercoledì 15 giugno 2016

Il pungolo e la frusta (Lu puntogliu e la scòrria)




In queste aree accidentate della Gallura la trazione animale si è protratta quasi fino all’abbandono delle coltivazioni, poiché l’uso dei trattori si è avuto per un periodo di tempo quasi trascurabile. L’animale più usato in assoluto è stato il bue, perché poteva assolvere tranquillamente il lavoro di trasporto e aratura.


Generalmente venivano individuati due tori, agili e ben strutturati, di stazza medio piccola, (boitti di sarra) che, inibiti alla procreazione, venivano abituati a sopportare il giogo ed a disporsi al traino di mezzi. L’iniziazione dei buoi al lavoro era un impegno di esperienza e aveva bisogno di qualche anno. 

Finito l’addestramento la coppia di buoi o giogo era avviata al lavoro, che preferibilmente non doveva superare le otto ore e i cinque giorni la settimana, ben rifocillati e discreto riparo durante la notte rigida. Tra l’uomo e l’animale si creava una sorta di dialogo, tradotto in ordini impartiti ed eseguiti: la fune all’orecchio per la direzione, l’incitamento verbale per la partenza e la fermata, il grido, il pungolo o la frusta nei momenti in cui era necessario un particolare sforzo per superare asperità del percorso. 

Il pungolo era la parte di un chiodo sporgente all’estremità di un manico in legno dalla lunghezza di un metro circa e la frusta era legata all’estremità dello stesso legno e non lo superava nella sua lunghezza. Esistevano delle misure imposte per la lunghezza del pungolo affinché non arrecasse danno all’animale ma, infine, tutto era demandato alla discrezione dell’uomo che non sempre era assolutamente caritatevole nei confronti dell’animale.


A tale proposito mi torna in mente il paragrafo letto su un  “Trattato di Economia Teorico Pratico dell’Agricoltura”  del 1844 in cui si fa riferimento a persone che trattavano i buoi con maledizioni, frusta e pungolo: -Il coltivatore accennato non dovrà mancare dal dare bando a quest’ultimo metodo, ed il partito per lui più vantaggioso sarà quello di adempiere anche in queste, come in quasi tutte le cose, a ciò che prescrivono le leggi dell’umanità-  

Credo che in queste contrade molti si siano adeguati a un comportamento corretto anche senza aver letto il paragrafo riportato, altri, purtroppo, in attesa di rinvenimento sono passati al trattore ma, per breve tempo ancora, con sferza e pungolo. A chiudere un’era millenaria, nel bene e nel male è stato comunque lu puntogliu e la scòrria.

Paolo Demuru

giovedì 9 giugno 2016

Il bicchiere della sorgente (la nappeddha)




Più insolito il termine o l’oggetto che richiama? Vediamo di dire qualcosa in proposito.
Intanto cominciamo con la materia che lo compone. Si tratta di una parte di corteccia della quercia da sughero o semplicemente sughera, pianta piuttosto frequente in Sardegna e nelle aree mediterranee dal livello del mare ai sei settecento metri.

Spesso il tronco di quest’albero pluricentenario può subire una crescita anomala imputabile a malformazione congenita o a intervento poco oculato durante la scorzatura. In ogni caso la quercia tende a coprire con la sua corteccia sugherifera l’escrescenza fibrosa del tronco stesso formando una sorta di parte concava nella lastra di sughero scorzato. Era in uso, in queste aree della Gallura ma non solo, prelevare la corteccia concava per vari usi, e questo ben prima che la corteccia sugherifera avesse  conseguito gli sviluppi commerciali degli ultimi due secoli.

Fra gli altri usi, vari e degni di minor considerazione, me ne viene in mente uno che per lungo tempo è stato in voga . Nelle sorgenti con acqua considerata di particolare pregio e maggiormente frequentate, si trovava sovente l’oggetto concavo appena descritto, rifinito con taglienti coltellini, di cui i pastori andavano sempre provvisti e, a volte con inciso l’anno di preparazione. Detto oggetto era identificato con il termine, dall’etimologia incerta e intraducibile, di Nappeddha;  ma quale uso che se ne faceva? Semplicemente cogliere dalla sorgente acqua per bere.

Il passante o il frequentatore della sorgente la trovava spesso poggiata in un canto laterale con la parte concava verso il basso e pronta all’uso. Pur nell’ambiente umido dove trovava alloggio era destinata a durare diversi anni e appena era piuttosto logora veniva tacitamente e sorprendentemente rinnovata dopo aver dissetato varie persone in tante stagioni. Sicuramente oggi tale prestazione sarebbe in odore di poca igienicità ma, in passato, il disimpegno era tale che per renderla alquanto igienica bastava risciacquarla con acqua corrente e dissetarsi in tutta tranquillità.

Oggi è raro incontrarne ancora. La sua funzione è demandata a qualche bicchiere in plastica bianco e leggero, infilato su di un ramo o capovolto presso lo sgorgatoio; non diverso da quanti altri ne possiamo notare in ogni dove abbandonati, perfetto segno di inciviltà da parte di chi lo abbandona e di irriverenza nei confronti degli altri e dell’ambiente.

L’aspetto degli odierni bicchieri messi a disposizione presso le fontane non ci dispone certo al loro uso e il senso di rifiuto sorge spontaneo. Non credo, però, che il nostro ribrezzo sia tutto da attribuire al fattore igienico, ma forse anche un po’ a quel senso di sfiducia verso oggetti di produzione industriale, che soverchiano i nostri oggetti tradizionali, simboli di identità e di un’appartenenza che per secoli ci ha reso singolari.

Paolo Demuru

venerdì 3 giugno 2016

Il Gallurese




Come suona il Gallurese?

Ed ora, per chi non l’avesse mai letto,  proviamo a immaginare il suono del Gallurese leggendo una personale versione del famoso sonetto Dantesco “Tanto gentile e tanto onesta pare…”



«Tantu amabili e sinzera pari

la femina mea cand’altu saluta

chi dugna linga, trimendi s’ammuta

e l’occhj no l’arriscan figghjulata.

Iddha n’anda, ‘ntindendisi lodata,

benignamenti d’umiltai ‘ïstuta

e ghjà pari cosa chi ni sia ‘inuta

da cel’a tarra ‘ miracul dotata.

Sinni mustra piacenti a ca’ la mira

chi da l’ucchjata n’indulci lu cori,

chi sirialla no la pò ca no la proa;

da li labbri soi pari chi sinni moa

unu spiritu suai pienu d’amori

ch’anda dicendi a l’amina: Suspira.»



P. Demuru