giovedì 16 novembre 2017

Il mio sogno dantesco

Dante, Virgilio e Catone a Balascia, gessetti su cartoncino

Ogni tanto mi capita di sognare, a volte anche stranezze, capaci di sconvolgere o mutare completamente le realtà concrete o astratte a cui il sogno stesso o la mente mia fa richiamo.

Appena questa notte ho sognato una scena che tutta si richiamava al momento in cui Dante e Virgilio, usciti a mondana luce dopo il periglioso inferno, vagano per trovare la via per proseguire il loro viaggio. Non erano nella spiaggia del Purgatorio, come appunto recita la Commedia ma bensì appena all’entrata del Museo Tematico, a Balascia.

Guardatisi intorno, come fa l’uomo che vuole rendersi conto dove sia, e volto per un attimo lo sguardo verso la statua di San Francesco, ebbero comunque una sorpresa. Gli apparve subito Catone, coperto da nobile tunica; la sua barba bianca e folta, la fronte alta e i suoi capelli un po’ scompigliati denotavano alquanto la sua erudita saggezza.

Ora, continuare in prosa il dialogo che ne seguì sarebbe per il lettore troppo lungo ed io rischierei di essere noioso e banale. Potrei, mio malgrado, annoiare anche il più paziente dei miei amici. Poiché a questi limiti non ho mai ambito, mi sono rivolto alla rima, alla stessa a cui si era affidato Virgilio nel famoso colloquio con Catone. Questa spesso dà la facoltà di semplificare ed evitare fronzoli inutili che distraggono da quello che è il vero oggetto da trattare. Ecco dunque il riepilogo del colloquio avvenuto nel mio sogno, forse frutto della fantasia del mio inconscio o reminiscenze delle ore notturne impiegate a tradurre la famosa Commedia dantesca in Gallurese...

Non so invero se i due poeti, in seguito, siano passati per la spiaggia del Purgatorio ma il sogno mi porterebbe alla convinzione che Virgilio si sia fermato tra i poeti e i cantori del Museo e Dante, sorridendo, abbia proseguito fino all’altura dove l’occhio vaga il finito, meditando l’infinito. Catone, dal canto suo, aveva già intuito che ogni salita porta al monte e ne aveva concesso volentieri il passaggio.

Il mio sogno era già svanito, come tutti i sogni, e il misero bagliore che trapelava dalle tapparelle mi annunciava senza ombra di dubbio che un’altra giornata era da affrontare.

Virgilio e Dante incontran Catone;
meravigliato e pien di commozione:
- d’onde voi venite pel Purgatorio
lungi da la spiaggia del promontorio
e chi siete, prima di proseguire
verso l’altura dell’eterno gioire?-
Virgilio: - Da lu ‘nfarru abal’abali;
chista ‘ntrat’abbalta par intrà gali

vistu n’aemu a li pedi di l’altura
passendi comu semu ‘lla Gaddhura.
Santu Franciscu c’è dendi lu ‘gnittu
par alzà sigur’e celti a lu sittu.
Di siguru cinn’è mustrendi la ‘ia
pal vidè lu locu ‘n und’è Maria.
Pessa chi ‘n chiss’alzata ghjà vi stocu eu
cu l’antichi e li noi di l’abbentu meu.

Avviati no ci semu pa la straccura
però d’attraissavi ghjà n’aèmu cura.-

E Virgilio e Dante così decisi
non vi furon da Catone indecisi,
anzi, questi da vegliardo e saggio
volentieri concede il passaggio;
il sommo poeta raggiunge l’altura, 

Virgilio il Limbo, in minor misura.

Paolo Demuru

lunedì 6 novembre 2017

Antonistevanu


Era ormai quasi buio quando comparve alla porta una persona a cavallo: parlò con i miei e poi proseguì il suo cammino. Non poteva trattenersi oltre quella sera perché doveva raggiungere un altro casolare di parenti. Era Antonistevene ‘emuru, come era chiamato e conosciuto a Berchidda dov’era nato il 2 febbraio del 1901.
Era sulla cinquantina ed io forse sui cinque o sei anni. In seguito sentii parlare spesso di quest’uomo dai miei, ricordare le sue doti di compositore e cantore dei suoi stessi versi, amabile e di buona compagnia. Gradiva trascorrere molto del suo tempo a rendere visita ai suoi parenti nella Gallura di Oschiri, specie in occasioni di matrimoni, battesimi, cresime o semplici ammazzatogghj di polcu (la tradizionale uccisione del maiale), sempre disponibile ad esibire la sua bella voce, a fare si che l’intrattenimento, di qualsiasi natura fosse, raggiungesse  un buon risultato.

Negli anni settanta andavo spesso a trascorrere periodi di ferie con moglie e figli piccoli a Vilgagghju; con mio suocero, parlavamo spesso di quest’uomo, docile e spensierato, non troppo fortunato in amore ed affetti ma dotato di ugola e poesia e, ormai, su con gli anni. Nei primi d’autunno del 1978, mio suocero mi chiese di accompagnarlo a Berchidda per rendere visita al caro parente. Non me lo feci ripetere due volte. Ci preparammo, presi la macchina e subito fummo in strada, decisi ad incontrare Zi’Antonistevanu.

Seguimmo la via più breve per cui svoltammo a sinistra alla fine del primo troncone del ponte Diana e per l’allora strada bianca giungemmo senza fatica al luogo desiderato. Berchidda, un piccolo slargo -Chissa podaria esse la casa d’Antonistevanu- (quella potrebbe essere la casa di d’Antonistevanu), disse mio suocero, ed io fermai prontamente il mezzo per un attimo di riflessione. Mentre, dall’interno della vettura, ci guardavamo intorno un anziano, vagamente curvo e con un pentolino in alluminio alla mano destra arrivò ed entrò dalla porta socchiusa che avevamo già osservato. -Millu mi’, chiss’è iddhu- ( eccolo, è lui), concluse mio suocero. Scesi e ci apprestammo alla porta che era divenuta socchiusa e bussammo; una donnetta snella ma non più fiorente aprì, ci scrutò ed esclamò facendo, con un inchino, un passo indietro e chiamando, poi, il fratello Ite so idende! Abbaida Antonistè’ ite bell’improvvisada.  Abbà’! E benennidos..., intrades... (Che cosa sto’ vedendo! Guarda Antonistè’, che bella improvvisata, guarda! E benvenuti…, entrate…) - Seguirono strette di mano, abbracci, convenevoli vari, abbondanti ed affettuosi.

Prendemmo posto in alcune poltroncine, presso un tavolo, circondati dalle premure dell’anziano cantautore e della sorella Giovanna Maria. Ammaliati da mille chiacchiere, consumammo insieme una cenetta niente male a base di formaggi, salsicce e qualche sorso di buon vino delle assolate pendici del Limbara. Zi’Antonistevanu ricordava con trasporto ad uno ad uno i parenti della vallata di lu Rìigghjolu, le prove di canto con Mario Scano e Luigino Cossu a “Frati Cani”, così come le tante serate sui palchi, perfino a Cagliari e Genova. Ricordò con commozione le due figliole lontane e il distacco dalla consorte con dovizia di particolari. Raccontò delle riflessioni e dei momenti malinconici trascorsi in solitudine, lontano dai palchi e dagli amici che tanto voleva vicini. L’ora trascorse così velocemente che quando ci ricordammo di dare uno sguardo all’orologio, questo segnava le cinque del dì seguente. La sorella Giovanna Maria, scusandosi, si era ritirata già da diverse ore nella stanza attigua. Non ci restava che prendere con noi la copia del libro che il nostro ospitante aveva pubblicato l’anno precedente, che tanto ci aveva caldeggiato, perché i versi contenuti erano la sua vita, la sua gioventù giullaresca, la sua fragilità, la sua saggezza conquisa a caro prezzo.

Rientrammo a casa inseguiti gradevolmente dal chiarore dell’alba portando con noi le premure della gentile sorella e dell’umile menestrello che tanto aveva allietato, al lume del fuoco o al più, di candela, i parenti e non solo, giovani ed anziani nelle frazioni della Gallura di Oschiri.
L’anno dopo, venimmo a sapere, che era deceduto a Codrongianos in una casa di riposo per anziani.

Paolo Demuru