domenica 11 settembre 2016

Un sogno che è stato realtà (un sonniu ch’è statu ‘iritai)


"Lu focu di Balascia", acquerello, Paolo Demuru 2016



Si, è vero, questa notte ho avuto qualcosa che, da bambino, avrei chiamato incubo ma non essendolo più per ragioni anagrafiche, lo chiamerò sogno o reminescenza dell’inconscio. Mi pareva di percorrere la strada che da Tempio porta al passo del Limbara; ero in una vettura strana, senza cappotta, che guidavo sì e no tra l’ombra dei pini e violenti spiragli di sole penetranti tra di essi. 

Un odore acre di bruciato sempre più intenso colpiva i miei sensi e quando arrivai al Passo, un attimo prima di svoltare per Balascia una nuvola scura mi impegnava parte dell’orizzonte. Intanto una radio che sentivo involontariamente aggiornava sulle ultime notizie riguardo il terremoto. Continuavo a salire verso quel potente pennacchio di fumo che, scuro e minaccioso, si innalzava di fronte a me.

Il sole andava sempre più adagiandosi sull’orizzonte sanguigno e triste quando sul pianoro cominciai a notare siepi fumanti e subito solo carboni e cenere e scheletri anneriti. Il silenzio era rotto dal rumore cupo dei mezzi aerei che tentavano di lanciare acqua sul fronte del fuoco che scendeva ormai un canalone verso Est, e da un flebile grido disumano proveniente forse dagli animali arsi vivi, dagli alberi inceneriti, o anche da me stesso, impietrito da tanto sfacelo. La notte sopraggiunse quasi all’istante.

Quella macchina che per un buon tratto mi aveva accompagnato non c’era più. Ero solo  in un deserto che diveniva sempre più cupo e desolante. Fiammelle accese nei tronchi erano sempre più evidenti nel venire meno la luce del giorno. Ricordo di essermi trovato sulla via per Tempio, presso lu Naracheddhu (i ruderi del nuraghe Roccu) a pensare a quanto ossigeno bruciato, a quante piante che ne producevano certa quantità carbonizzate, a quanta cenere e calore inutile prodotto; mi veniva da pensare alle sorgenti che si sarebbero prosciugate, a quanta pioggia in meno avremo dovuto avere, all’avanzata impetuosa del deserto, a quel paesaggio che non avrei più rivisto. La natura aveva elargito un paradiso e l’uomo ne aveva fatto un pauroso inferno.

Verso Nord, dove volgevo lo sguardo, il cielo era sgombro e vedevo arrivare verso me delle stelle cadenti, veloci e luminose che giungevano a lambire la terra. Erano tante, erano numerose. Erano anch’esse brace e faville ed erano forse il residuo di un disfacimento planetario, ma esse non portavano né danno né dolo. 

Erano gli ultimi segnali di un ordine o di un riequilibrio dell’universo o manifestazione del suo respiro, del suo essere che, sotto forma di luce, giungeva fino a me, quasi a consolare il mio stato. I lumi sui ceppi alle mie spalle erano i segni tangibili delle debolezze o delle avidità umane che abbassano l’uomo a ricorrere ad odio, invidia o ai trenta denari…

…E se n’è andato anche agosto
in fumo, in fiamme, in tremor’e crolli;
mute campane, neri piani e colli,
deserto e macerie ed alto il costo.
Pochi per goder, troppi per patire
tra ‘l mare caldo e la tant’arsura
e qualche tuono che non porta paura,
poco udito ne l’aer pomeridiano.

Guardano le stelle, se ne precipitano
anch’esse in gran lume, in gran stuolo;
vengon da lontano, toccano ‘l suolo
dicendoci, tra fuoco e calcinacci:

che, c’entra l’uomo? veniamo anche noi,
del cel fumo e schianto, a lagrimar con voi.

Mi svegliai d’improvviso e mentre mi veniva in mente questo sonetto ripresi sonno poiché, in realtà, non ero presso lu Naracheddhu ma bensì nel mio letto a cercare una posizione più adatta alla mia schiena, divenuta un po’ delicata.


Paolo Demuru