lunedì 6 febbraio 2017

Il Focolare (Lu fuchili)

"Focolare", colori a cera su cartoncino, Paolo Demuru, 2016
Una volta il fuoco non veniva acceso nel caminetto, sistemato in una parete o all’angolo della stanza ma bensì al centro della camera; il fumo saliva per naturale andare verso il tetto e attraverso le canne  o listelli in legno e poi le tegole guadagnava assoluta libertà consegnandosi ai venti per farsi disperdere nell’atmosfera.

Era questo il focolare (Lu Fuchili), con tutti i suoi attributi e parvenze di affetto e d’unione, d’ordine e di meditazione, di ristoro, di conforto o di complotto. Lu fuchili accoglieva e rappresentava la giovane coppia, la sua prole, i vecchi, la saggezza di chi aveva la barba bianca e l’irruenza dei giovani. Lu fuchili era la casa, la famiglia. Era il luogo dove il lavoratore al rientro dalla dura giornata riponeva tutta la sua stanchezza, accolto dalle premure della consorte, dove il bambino nella culla  emetteva i primi vagiti e accennava le risatine prima del sonno dopo la poppata. Era il luogo della cottura del cibo e del desinare sul tavolo accanto (ho scritto desinare perché il pasto più abbondante non era il pranzo, spesso consumato in modo frugale nella campagna, bensì la cena); vi si arrostiva carne e castagne e volentieri si consumava un bicchiere di vino. Soprattutto si dialogava, si programmava e si spettegolava. Si raccontava di sè e degli altri in modo tragico o ironico a seconda della convenienza o dell’umore di coloro che attorniavano le braci arancioni o la fiamma ballerina sul ceppo di lentischio o di erica. Nessuno presentava le spalle ma tutti avevano la possibilità di guardarsi in faccia l’un l’altro al seppur fioco barlume che proveniva dal centro.

Quando l’argomento diveniva serio, e per varie ragioni non doveva essere appreso dai piccoli, gli adulti e gli anziani usavano un linguaggio particolare solo da loro conosciuto, chiamato l’uspu, che spesso consisteva nel collocare all’interno dei nomi comuni una sillaba aggiuntiva tale da trasformarli e renderli incomprensibili; consisteva nel non pronunciare direttamente il nome di qualcuno ma fermarsi a questo (chistu), quello (chiddhu), il tale (cutalu, lu tali), quello della favola (fulanu o fulana). L’ambiente era unico e la decenza era d’obbligo. La privatezza non era sancita da articoli ma era osservata per usanza e costume.

Nelle lunghe notti d’inverno, sotto la musica della pioggia, si recitavano versi, si cantava qualche canzone amorosa o nostalgica e quando l’urlo del vento o il fragore del temporale in arrivo si mostravano impetuosi, costringendo allo spegnimento la fiammella sinuosa, si portavano a letto i bimbi; si coprivano abbondantemente e gli adulti si facevano ancora più presso i carboni accesi sotto la cenere e in attesa che tutto tornasse a gioire bisbigliavano qualche preghiera.


Paolo Demuru