sabato 30 dicembre 2017

Bernardo De Muro a Cagliari - Soggiorni e recite


Cagliari, Teatro Politeama Margherita e albergo
Dai quotidiani dell’epoca possiamo seguire Bernardo De Muro nei soggiorni a Cagliari (dal mio libro “Cronaca di un Mito Bernardo De Muro attraverso i quotidiani sardi”, Davide Zedda Editore)  e il successo delle sue recite presso il Politeama Margherita (in viale Regina Margherita) e l’Eden Park, sorta di teatro all’aperto che veniva allestito durante la bella stagione nell’area in cui ora sorge il palazzo dell’INPS.

Sappiamo che il brillante e giovane tenore vi si esibì con grande successo per la prima volta dal 3 al 19 gennaio 1916. Aveva trentacinque anni ed era già conosciutissimo nel Nuovo Mondo. Aveva cantato per beneficenza in onore delle vedove del conflitto in atto nel Nord-Est dell’Italia. Ritornò puntualmente a Cagliari nel 1923, dopo sette anni, e vi soggiornò dal 18 aprile al 16 maggio, da 42enne.

Il soggiorno più lungo lo fece da 49 enne con moglie, e figlia al seguito di appena 4 anni, (Joanna Helen) detta Dina. L’ultimo soggiorno Cagliaritano si estese dal 13 luglio al 5 settembre 1930. Si esibì all’Eden Park con la moglie, il soprano Helen Wait e riscosse il solito grande successo. In questa lunga permanenza visitò Carloforte per inaugurare il teatro a lui dedicato. Il 6 Agosto del 1930 si esibì ad Ozieri nel teatro ricavato nel palazzo G. M. Dessena, costruito nel 1925 in piazza Garibaldi e il 5 settembre fu la data l’ultimo concerto che l’abile tenore tenne al Teatro Margherita di Cagliari.


Nell’immagine l’ingresso al Politeama Margherita, nel viale omonimo, a Cagliari.

venerdì 15 dicembre 2017

L’ovile (lu ‘accìli)

L'ovile presso il Nuraghe Ruju (foto Lorena Mameli, aprile 2017)

I furti di bestiame nell’ottocento erano arrivati a livelli veramente insopportabili. Si erano messe in essere tutte le astuzie possibili ed immaginabili nell’arte di rubare il bestiame, portarlo lontano, oppure macellarlo in brevissimo tempo per sfuggire ad ogni controllo. Trattasi di illecito praticato sin dalla preistoria, tanto che pure la mitologia lo ha preso in considerazione. In tutta la Sardegna, e non solo, si consumava lo stesso reato in modo diverso e adeguato alle specifiche condizioni dei luoghi, delle persone, delle abitudini. Multe, condanne e sistemi dissuasori non sono mancati e non sono bastati e non basteranno fino a quando la pastorizia o gli allevamenti non avranno perso valore di mercato.

Fra i provvedimenti atti a scoraggiare l’abigeato credo che quanto escogitato a fine ottocento possa ritenersi quello tra i più rivoluzionari: la marchiatura e l’anagrafe degli animali. Intendo riferirmi al Regio decreto del 14 luglio 1898 n 404, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 29 settembre 1898 N 225 e da attuare entro i sessanta giorni successivi; comunemente detto “legge del ‘99”. Si adeguarono gli uffici pubblici con spiegamento di personale e autorità, registri e penne. Si adeguarono, a fatica, i proprietari preparando lo stampo con le iniziali in metallo e l’impugnatura in legno per evitare il calore, quando lo stesso doveva immettersi nelle brace ardenti. Si dovettero adeguare le mandrie a disporre i loro fianchi al ferro rovente che gli procurava un segno distintivo e indelebile. Adeguarono o costruirono degli ovili nuovi e ben capienti per l’occasione, poiché si usava convogliare il bestiame di diversi proprietari, per comodità, in un solo sito.

Intanto questa occasione diveniva un momento importante; esibizione del bestiame, confronto del colore, razza e condizione a merito dell’attaccamento e della capacità del vaccaro. Esibizione di illustri scrivani accompagnati da gendarmi dai cappelli fregiati. Divenne sempre più un momento conviviale, dove la colazione era spesso accompagnata da bicchieri che passavano sovente dall’umido all’asciutto e viceversa.

Anche l’area del Museo Tematico all’Aperto a Balascia fu teatro di queste cose. Qui agli inizi del novecento fu costruito un grande ovile anche per questo scopo. A breve distanza dal nuraghe Ruju il nonno Giovanni aveva trasformato l’incontro dei tre appezzamenti più grandi della sua proprietà di Balascia in un recinto con tre ingressi per varie opportunità: far convergere i suoi animali da ogni appezzamento, destinarne ognuno a semina o a riposo e, infine, grazie alla sua congrua dimensione, ricevere anche il bestiame dell’area limitrofa in occasione della marchiatura.


Dopo mezzo secolo la “legge del 99” cominciò ad essere messa in discussione perché metodo cruento e poco riguardoso nei confronti delle bestie, pur sempre compagne di vita dell’uomo. L’effetto doloroso è stato superato da un altro sistema forse più indolore per l’animale ma con più burocrazia per l’allevatore. Negli ultimi anni i burocrati partecipano sempre meno all’evento. Le alzate di gomito sono ormai nel dimenticatoio, scoraggiate dagli introiti sempre più bassi degli allevatori e la drastica scomparsa dei capi bovini. Mentre le carni arrivano da lontano i vecchi ovili sono crollati o quasi, sotto rovi e disuso. Anche il recinto presso il  nuraghe Ruju mostra segni di forte degrado; attende, ormai impaziente, il riordino del potente muro che lo ha distinto per ben oltre mezzo secolo. Attende il rifacimento e il posizionamento dei cancelli in legno (li iachi) per poter sognare tranquillo il muggito delle mucche e la limpida voce dell’allevatore mentre s’appresta alla mungitura, all’alba o al tramonto. Purtroppo scuote sdegnato la testa quando sente il sibilo del vento sui cavi dell’alta tensione, che senza rispetto lo sovrastano sfiorando quasi i ruderi del vetusto Nuraghe. Noi, il centenario ovile, lo mostriamo nei panni in cui si trova, provato e lacero, riproponendone la sua gloriosa gioventù, drammatica e semplice, ma altrettanto dignitosa.

Paolo Demuru

giovedì 16 novembre 2017

Il mio sogno dantesco

Dante, Virgilio e Catone a Balascia, gessetti su cartoncino

Ogni tanto mi capita di sognare, a volte anche stranezze, capaci di sconvolgere o mutare completamente le realtà concrete o astratte a cui il sogno stesso o la mente mia fa richiamo.

Appena questa notte ho sognato una scena che tutta si richiamava al momento in cui Dante e Virgilio, usciti a mondana luce dopo il periglioso inferno, vagano per trovare la via per proseguire il loro viaggio. Non erano nella spiaggia del Purgatorio, come appunto recita la Commedia ma bensì appena all’entrata del Museo Tematico, a Balascia.

Guardatisi intorno, come fa l’uomo che vuole rendersi conto dove sia, e volto per un attimo lo sguardo verso la statua di San Francesco, ebbero comunque una sorpresa. Gli apparve subito Catone, coperto da nobile tunica; la sua barba bianca e folta, la fronte alta e i suoi capelli un po’ scompigliati denotavano alquanto la sua erudita saggezza.

Ora, continuare in prosa il dialogo che ne seguì sarebbe per il lettore troppo lungo ed io rischierei di essere noioso e banale. Potrei, mio malgrado, annoiare anche il più paziente dei miei amici. Poiché a questi limiti non ho mai ambito, mi sono rivolto alla rima, alla stessa a cui si era affidato Virgilio nel famoso colloquio con Catone. Questa spesso dà la facoltà di semplificare ed evitare fronzoli inutili che distraggono da quello che è il vero oggetto da trattare. Ecco dunque il riepilogo del colloquio avvenuto nel mio sogno, forse frutto della fantasia del mio inconscio o reminiscenze delle ore notturne impiegate a tradurre la famosa Commedia dantesca in Gallurese...

Non so invero se i due poeti, in seguito, siano passati per la spiaggia del Purgatorio ma il sogno mi porterebbe alla convinzione che Virgilio si sia fermato tra i poeti e i cantori del Museo e Dante, sorridendo, abbia proseguito fino all’altura dove l’occhio vaga il finito, meditando l’infinito. Catone, dal canto suo, aveva già intuito che ogni salita porta al monte e ne aveva concesso volentieri il passaggio.

Il mio sogno era già svanito, come tutti i sogni, e il misero bagliore che trapelava dalle tapparelle mi annunciava senza ombra di dubbio che un’altra giornata era da affrontare.

Virgilio e Dante incontran Catone;
meravigliato e pien di commozione:
- d’onde voi venite pel Purgatorio
lungi da la spiaggia del promontorio
e chi siete, prima di proseguire
verso l’altura dell’eterno gioire?-
Virgilio: - Da lu ‘nfarru abal’abali;
chista ‘ntrat’abbalta par intrà gali

vistu n’aemu a li pedi di l’altura
passendi comu semu ‘lla Gaddhura.
Santu Franciscu c’è dendi lu ‘gnittu
par alzà sigur’e celti a lu sittu.
Di siguru cinn’è mustrendi la ‘ia
pal vidè lu locu ‘n und’è Maria.
Pessa chi ‘n chiss’alzata ghjà vi stocu eu
cu l’antichi e li noi di l’abbentu meu.

Avviati no ci semu pa la straccura
però d’attraissavi ghjà n’aèmu cura.-

E Virgilio e Dante così decisi
non vi furon da Catone indecisi,
anzi, questi da vegliardo e saggio
volentieri concede il passaggio;
il sommo poeta raggiunge l’altura, 

Virgilio il Limbo, in minor misura.

Paolo Demuru

lunedì 6 novembre 2017

Antonistevanu


Era ormai quasi buio quando comparve alla porta una persona a cavallo: parlò con i miei e poi proseguì il suo cammino. Non poteva trattenersi oltre quella sera perché doveva raggiungere un altro casolare di parenti. Era Antonistevene ‘emuru, come era chiamato e conosciuto a Berchidda dov’era nato il 2 febbraio del 1901.
Era sulla cinquantina ed io forse sui cinque o sei anni. In seguito sentii parlare spesso di quest’uomo dai miei, ricordare le sue doti di compositore e cantore dei suoi stessi versi, amabile e di buona compagnia. Gradiva trascorrere molto del suo tempo a rendere visita ai suoi parenti nella Gallura di Oschiri, specie in occasioni di matrimoni, battesimi, cresime o semplici ammazzatogghj di polcu (la tradizionale uccisione del maiale), sempre disponibile ad esibire la sua bella voce, a fare si che l’intrattenimento, di qualsiasi natura fosse, raggiungesse  un buon risultato.

Negli anni settanta andavo spesso a trascorrere periodi di ferie con moglie e figli piccoli a Vilgagghju; con mio suocero, parlavamo spesso di quest’uomo, docile e spensierato, non troppo fortunato in amore ed affetti ma dotato di ugola e poesia e, ormai, su con gli anni. Nei primi d’autunno del 1978, mio suocero mi chiese di accompagnarlo a Berchidda per rendere visita al caro parente. Non me lo feci ripetere due volte. Ci preparammo, presi la macchina e subito fummo in strada, decisi ad incontrare Zi’Antonistevanu.

Seguimmo la via più breve per cui svoltammo a sinistra alla fine del primo troncone del ponte Diana e per l’allora strada bianca giungemmo senza fatica al luogo desiderato. Berchidda, un piccolo slargo -Chissa podaria esse la casa d’Antonistevanu- (quella potrebbe essere la casa di d’Antonistevanu), disse mio suocero, ed io fermai prontamente il mezzo per un attimo di riflessione. Mentre, dall’interno della vettura, ci guardavamo intorno un anziano, vagamente curvo e con un pentolino in alluminio alla mano destra arrivò ed entrò dalla porta socchiusa che avevamo già osservato. -Millu mi’, chiss’è iddhu- ( eccolo, è lui), concluse mio suocero. Scesi e ci apprestammo alla porta che era divenuta socchiusa e bussammo; una donnetta snella ma non più fiorente aprì, ci scrutò ed esclamò facendo, con un inchino, un passo indietro e chiamando, poi, il fratello Ite so idende! Abbaida Antonistè’ ite bell’improvvisada.  Abbà’! E benennidos..., intrades... (Che cosa sto’ vedendo! Guarda Antonistè’, che bella improvvisata, guarda! E benvenuti…, entrate…) - Seguirono strette di mano, abbracci, convenevoli vari, abbondanti ed affettuosi.

Prendemmo posto in alcune poltroncine, presso un tavolo, circondati dalle premure dell’anziano cantautore e della sorella Giovanna Maria. Ammaliati da mille chiacchiere, consumammo insieme una cenetta niente male a base di formaggi, salsicce e qualche sorso di buon vino delle assolate pendici del Limbara. Zi’Antonistevanu ricordava con trasporto ad uno ad uno i parenti della vallata di lu Rìigghjolu, le prove di canto con Mario Scano e Luigino Cossu a “Frati Cani”, così come le tante serate sui palchi, perfino a Cagliari e Genova. Ricordò con commozione le due figliole lontane e il distacco dalla consorte con dovizia di particolari. Raccontò delle riflessioni e dei momenti malinconici trascorsi in solitudine, lontano dai palchi e dagli amici che tanto voleva vicini. L’ora trascorse così velocemente che quando ci ricordammo di dare uno sguardo all’orologio, questo segnava le cinque del dì seguente. La sorella Giovanna Maria, scusandosi, si era ritirata già da diverse ore nella stanza attigua. Non ci restava che prendere con noi la copia del libro che il nostro ospitante aveva pubblicato l’anno precedente, che tanto ci aveva caldeggiato, perché i versi contenuti erano la sua vita, la sua gioventù giullaresca, la sua fragilità, la sua saggezza conquisa a caro prezzo.

Rientrammo a casa inseguiti gradevolmente dal chiarore dell’alba portando con noi le premure della gentile sorella e dell’umile menestrello che tanto aveva allietato, al lume del fuoco o al più, di candela, i parenti e non solo, giovani ed anziani nelle frazioni della Gallura di Oschiri.
L’anno dopo, venimmo a sapere, che era deceduto a Codrongianos in una casa di riposo per anziani.

Paolo Demuru

giovedì 19 ottobre 2017

Qualche notizia sulle origini di Bernardo De Muro

Atto di nascita di Bernardo De Muro

Risalire alle origini di persone nate ben oltre un secolo non è cosa semplice ed immediata; gli uffici anagrafici potevano essere ancora inesistenti o in rodaggio, mentre i Quinque Libri redatti dai parroci sono la fonte decisamente più attendibile. Infatti, nell’immagine riporto proprio un trafiletto dal libro di Antonino Defraia “Bernardo De Muro ossia l’utile cronologia” Bongiovanni editore in Bologna. Dalla pagina 17 possiamo leggere, tra l’altro, quanto riportato in figura, e qui ogni commento è superfluo.

Altra testimonianza, che dà ragione a quanto evidenziato nel presente atto la si trova alla pag 27 del periodico LA FRISAIA n° 98 anno XIX, settembre-ottobre 2005. L’articolo impegna 12 pagine della rivista e porta la firma del prof. Erennio Pedroni. Qui trascrivo alcune righe dalla prima pagina del citato articolo:
“IL PERIODO TEMPIESE   Il 6 gennaio 1881, a Tempio Pausania, Demuro Antonio Maria e Demuro Giovanna Maria contraggono Matrimonio. Lo sposo, Demuro Antonio Maria classe 1857, è un giovanotto residente a Tempio ma è nato nel comune di Oschiri, è figlio di Demuro Francesco nativo di Oschiri e di Demuro Maddalena nativa di Berchidda. La sposa, Demuro Giovanna Maria classe 1859, nata e residente a Tempio, è figlia di Demuro Giuseppe Antonio e di Maria Columbano entrambi tempiesi. Gli sposini vanno a vivere in una casa situata in rione del Pilare, uno dei tanti quartieri in cui è divisa la cittadina di Tempio Pausania, qui, nel tardo pomeriggio di giovedì 3 novembre 1881, nasce Bernardino Demuro”.

Sempre dallo stesso articolo si apprende che Bernardino risulta il primogenito di otto figli dei coniugi Antonio Maria scomparso a Rimini nel 1927 e di Giovanna Maria deceduta nel 1943. 

Si tratta, in sintesi, di due documenti storici che, a parte le sfumature anagrafiche (ad Oschiri il cognome viene trascritto come Demuru, a Tempio come Demuro),  redatti in uffici e momenti diversi risultano coincidere nella sostanza e, pertanto, sino a prova contraria, sarebbero da considerarsi attendibili riguardo l’origine del famoso Tenore gallurese (in arte Bernardo De Muro). Rimane, in conclusione, l’ipotesi (fantasiosa e remota) che la madre di Bernardino, all’atto della nascita del primogenito, si trovasse in altro luogo ma, per semplificare ogni procedura burocratica, si sia preferito dichiararla avvenuta, comunque, a Tempio la sera del 3 novembre 1881.

Paolo Demuru

giovedì 12 ottobre 2017

Storie di api e di alveari

Alveari, 1986

Ricordo di aver trascorso un’ infanzia felice per quanto attiene alla salute: lungi da raffreddori, influenze o altri disturbi tali da ridurre il mio quotidiano vivere a contatto con la natura, le piante, l’orto, il torrente gli animali del cortile e le attività a ciò attinenti ed, infine, i miei trastulli personali fatti di invenzioni e di prove. A volte credo di avere ancora dentro di me qualcosa di quei momenti per me importanti ed utili, di quelle esplorazioni, di quelle scoperte. Costruire giocattoli e manipolare arnesi erano il mio ideale passatempo nei momenti in cui non dovevo accudire ad altre incombenze che mi venivano chieste o richieste nel lento trascorrere di quegli anni.

Accompagnavo mia madre, una delle tante volte, nell’area dove lei custodiva e curava gli alveari con severa premura e con tanta maestria e disinvoltura, tale da evitare spesso misure precauzionali particolari durante l’approccio con le api. Queste non sempre erano di umore generoso e compiacenti nei confronti degli interventi dell’uomo. Sono esseri nobili e, soprattutto laboriosi, tanto da non sopportare facilmente intralci nelle loro intenzioni precise e profonde durante la loro vita breve ed intensa. Sono severamente organizzate in caste, in strati sociali con possibilità di salire dalle condizioni più infime, diremmo, a quelle più elevate. In pratica si comincia da addette alle pulizie, per divenire cercatrici di miele affrontando le avversità delle stagioni, logorandosi di operosità, coprendosi di onore e fatiche che accorciano, a loro insaputa, la loro stessa esistenza. Esse possono pure accedere a divenire fuchi o regine per meriti o scelte a noi piuttosto sconosciute e attendere alla riproduzione di nuove famiglie, nuove generazioni. Il vivere delle api è affascinante e incorruttibile, prodigo e virtuoso. Forse anche tra loro pullulano ingiustizia e tradimento ma, a mio modesto avviso, l’innocenza e la sincerità hanno la meglio. Il loro costume è, comunque, invariato da millenni; la loro battaglia non credo che sia per accaparrarsi assurde prebende ma quel titolo di nobiltà individuale a cui l’uomo spesso non aspira perché vittima di ben più infima ricchezza.

Proprio da queste maestre di vita seguivo mia madre una mattina tra aprile e maggio di tanti anni fa, forte d’innocenza, difeso dall’ingenuità e, non meno, dal rispetto e dai riguardi che ero abituato nutrire nei loro confronti ... Sotto le sughere trovammo, mentre i raggi del sole vi penetravano obliqui, uno sciame in attesa e in frenetica ricerca di nuova dimora. Dalla loro attività mia madre capì subito che le api erano alla ricerca di una sistemazione definitiva da qualche giorno e, pertanto, manifestavano chiaramente un certo nervosismo. Cercammo un alveare in sughero disponibile che durante i mesi precedenti era stato  risistemato e mia madre vi strofinò all’interno dei rami di lavanda per far sì che il bell’aroma potesse entrare nelle grazie delle dorate inquiline e loro prendervi posto volentieri e facilmente. Cominciarono ad introdursi al suono ritmico di un legno percosso sul coperchi dell’alveare rustico. Una sorta di marcia trionfale per un esercito di quattro o seimila insetti nervosi ed impazienti che si apprestava alla nuova casa ma che in parte volava non convinto attorno all’area delle operazioni. Mi avvicinai un po’ troppo e forse intercettai le effusioni di alcune che, con l’ausilio di altre si avventarono sulle mie parti scoperte con i loro pungiglioni affilati. Mi punsero in tante e mia madre dovette sospendere il delicato impegno per venirmi in aiuto e spingermi verso l’ombra con l’ausilio di una torcia di stoffa accesa affinché il fumo le facesse desistere dalla contesa.

Finita l’operazione di raccolta dello sciame e posizionato in fretta l’alveare nell’apposito spiazzo sotto la sughera, rientrammo con premura e fatica a casa. Mia madre mi lavò col succo di limone nelle parti punte, mi mise a letto chiedendomi di fare di tutto per rilassarmi e dormire e tutto sarebbe tornato come prima. Chiusi gli occhi e mi coprii perché un freddo strano mi pervase. Sentivo le parti punte leggermente doloranti, mentre un po’ di sonno mi sembrava sopraggiungere e un sogno lungo e confuso mi accompagnò per alcune ore. Di pomeriggio mia madre mi destò e mi propose di mangiare qualcosa: una bella fetta di pane con miele! Mangiai volentieri e con appetito e cercai di raccontare il lungo e confuso sogno, che a tratti, non riuscivo proprio a ricordare. –Hai avuto un po’ di febbre -commentò mia madre- è per questo che sognavi-
La convalescenza durò fino alla fine della dolce merenda poi tornai ai miei trastulli e, in seguito, ad aiutare a custodire gli alveari ed estrarne il nettare dolce e terapeutico.
Io, per tanti anni ancora rimasi della convinzione che la febbre era un sogno lungo, penoso, talora ripetitivo, ma difficile da ricordare.
Paolo Demuru


giovedì 21 settembre 2017

Li Pricunti (Il fidanzamento)

Ecco cosa scrive  "La Gazzetta del Medio Campidano" del 15 settembre 2017, pagina 13, a proposito della commedia in Gallurese di Paolo Demuru intitolata "Li Pricunti".


giovedì 7 settembre 2017

La diga sul fiume Coghinas

La diga del Coghinas, foto dell'autore, 1986

Immaginare quale impressione possa aver portato nella mente dei pastori galluresi la costruzione della diga sul Coghinas (illu Riu Mannu) non è cosa semplice né scontata. Tuttavia qualche cenno sarà possibile annotarlo. 

Lo sbarramento grigio che siamo soliti osservare è sorto intorno al 1926 per frutto d’ingegno e di fatiche umane. Una immensità di persone vi presero parte. Mai prima d’allora fu vista o immaginata tanta gente ingegnarsi a vario titolo nella stretta di Muzzoni e in tutta l’area di la Gaddhura d’Oscari. Vi arrivò la corrente elettrica proveniente dalla appena costruita diga di S. Chiara sul fiume Tirso attraverso un lungo elettrodotto. Vi arrivò una strada con deviazione dalla Oschiri Tempio. Vi arrivarono mezzi imponenti, materiali mai visti, né pensati, trasportati da carri e camion impolverati e con lezzo di olio e di benzina. Vi giunse una moltitudine di uomini (cinquemila), parecchi con donne e bambini bisognosi di prendere alloggio in provvisorie baracche che si sarebbero trasformate in case e, successivamente, in un villaggio. 

Gli uomini erano figure esperte nei lavori di sbancamento, di cava, di miniera; provenivano dal Sulcis, dai 18.000 che avevano costruito la diga sul fiume più lungo e più ricco di acque dell’Isola e tutti, in questa vallata, si adoperarono in turni piuttosto faticosi. Scavarono il letto del fiume, penetrarono per una cinquantina di metri nelle due sponde, minando ed estraendo granito. Vi piazzarono le basi ed eressero il potente muro che avrebbe dovuto contenere una quantità come 250 milioni di metri cubi del liquido più prezioso nel mondo. Gli ingegneri Perotto e Faconti studiarono e diressero i lavori di costruzione del ponte agile e snello su doppia fila di colonne e un bell’arco centrale per supportare la strada di collegamento da Oschiri a Tempio, poiché  quello esistente doveva essere necessariamente sommerso.

La nuova centrale doveva produrre energia per le industrie, luce per le case ma molti della Gallura e dell’oschirese non né godettero Videro scomparire sotto le acque dell’invaso terre e pascoli fino ad allora fruiti; videro scomparire vigne e case e i magri compensi non risarcirono certo il mal di cuore per le reali mancanze. Noi non abbiamo assistito a quelle rinunce, siamo nati vedendo ed ammirando quella distesa argentea e cupa brulicante di pesci e sorvolata da gabbiani e cornacchie. Avvicinandoci alle rive vi abbiamo ammirato la grande distesa increspata appena dalla brezza, vi abbiamo notato i monti capovolti, specchiarsi le nuvole, brillare il sole e pure la luna. Vi abbiamo visto le nostre immagini a testa in giù, un po’ come la nostra storia che ci ha preceduti che poco e male ci è stata raccontata. Non più una ricchezza o riserva per chi in prossimità vi era nato e cresciuto ma una disponibilità, una comodità  per comunità o singoli lontani e ignari degli uomini e dei sacrifici che si sono consumati lungo le due sponde di lu riu MannuOggi siamo soliti volgere lo sguardo al lago, come se fosse da sempre esistito tra colline sempre meno verdi, sempre più brulle, senza tante meditazioni che ci possono apparire inutili o noiose ma non facciamo a meno di vederlo d’argento o d’azzurro a seconda della giornata dell’ora, della posizione del sole, del nostro umore.


Qualcosa mi stimola a concludere in un certo modo e mi sia veniale se mi permetto di svelarlo: sotto quella riserva d’acqua vi è una parte della nostra storia, del nostro passato, che è costato ai nostri nonni fatica e attese, forse ad un tratto interrotte. Da quella massa viva e in continuo movimento che lambisce graniti e sabbia che avanza e si ritira, a seconda della stagione, potrebbe nascere un domani qualcosa di tanto ambizioso quanto oggi impensabile. L’ambiguità e l’arrivismo non hanno cuore,  l’ingegno e la creatività non hanno confini.

Paolo Demuru

lunedì 5 giugno 2017

Balascia, i graniti eterni del Museo (Lu monti di lu Colbu)

I graniti del Museo

Alcuni giorni or sono ero a Balascia nell’area del Museo Tematico all’Aperto; era di sabato pomeriggio, ero solo e senza un lavoro particolare da eseguire. Sono arrivato mentre una nebbia leggera ed intermittente lambiva le alture e velava i graniti più alti  e vistosi. Ho pensato di scalare Lu Monti di Lu Colbu. Avevo solamente scarpe ed indumenti adatti, la macchina fotografica che solitamente mi accompagna, mi mancavano un paio di guanti per maggior tenuta, ma mi avventurai comunque. 

Andare ai piedi delle torri granitiche, ben visibili dall’ingresso, era mia ambizione da tempo; volevo vedere da vicino le condizioni della vecchia mandria e dei lecci cresciuti all’interno e attorno all’antica opera umana. Raggiunsi facilmente il sito e rimasi subito colpito dalle condizioni del manufatto, quasi intatto, solo parzialmente avvolto dalla vegetazione di eriche e, soprattutto, lecci cresciuti abbondanti e rigogliosi, tali da distogliere la visuale delle cime delle tre torri granitiche che siamo soliti osservare. Mi resi conto che con un modesto intervento di pulizia e riordino della foresta si poteva ottenere un risultato capace di un’accoglienza non da trascurare e di tutto rispetto.

Un lato della mandria doppia è formato dalla base delle torri granitiche mentre gli altri sono in muro a secco, in buono stato di conservazione, nonostante la folta presenza di edera selvatica in alcuni tratti, capace di particolare penetrazione e dall’azione demolitiva abbastanza energica. 

Osservai l’ingresso, solo privo di cancello, perché digerito dal tempo, ma facilmente ricostruibile. Pensai a quante capre vi saranno passate in due secoli di uso e di più a quanta fatica umana per la costruzione e lo sfruttamento, o meglio, l’utilizzo di quest’opera dell’ingegno e dell’esperienza. Pensavo all’ombra dei lecci, al riparo dai venti, all’aria filtrata e ossigenata che si poteva  respirare, mentre cercavo tra le cime degli alberi le cime delle torri lambite dalla nebbia e, quando la voglia di scalare mi rapì, cominciai la semplice arrampicata. 

Mentre salivo tutto diveniva più semplice e più vero. Mi sembrava di leggere una storia plurimillenaria disegnata come un fumetto, scritto con inchiostro indelebile sulle forme dei graniti, frutto di inesorabili crolli. Il caldo ed il gelo, i venti e le piogge, i sismi e i fulmini avevano creato un paesaggio intenso e drammatico; crolli ed erosioni avevano modellato la roccia ricavando le forme più bizzarre in elementi dalla stabilità quasi impossibile.

Volevo trattenermi a lungo a leggere, a scoprire, a farmi sorprendere, ma lo stesso tempo che con la sua generosità e severità aveva scritto quel libro che mi mostrava aperto, mi costringeva a sfogliare velocemente tra un colpo di vento e un velo di nebbia mentre il sole scendeva dietro l’Asinara... ed insisteva gentilmente: "scendi, è ora..."

Scesi, dunque, con il rammarico di aver scoperto solo una minima parte di tanta storia, di aver letto pochissimo di quel bel libro aperto di fronte a me; soddisfatto, alquanto, per aver scalato Lu Monti Di Lu Colbu senza guanti, senza funi e chiodi, senza offendere le millenarie opere ma ottenendo da esse quasi un commiato per averle volute devotamente visitare nella loro tacita fierezza.

La spelonca del falco è rimasta da me inviolata come le cime più ardite; per accedervi mi occorrevano ben altri mezzi e forse un po’ di coraggio in più oltre la volontà avuta e il senso di riguardo di cui mi ero ben provveduto.

Paolo Demuru

mercoledì 17 maggio 2017

Lo stendardo di S. Leonardo (la bandera di Santu Ninaldu)

Processione di San Leonardo, gessetto su cartoncino, Paolo Demuru, 2017


Tutto un pomeriggio impegnammo per preparare lo stendardo. Togliemmo il telo dalla cassa che lo conteneva e ci adoperammo, con fatica a stirare le parti stropicciate dalla posizione scomoda assunta dal fatto che era stato ripiegato varie volte su se stesso per adattarsi al volume del contenitore che lo teneva prigioniero da anni. Andammo a recuperare le strisce di seta colorate che bisognava legare al tronco, appena sotto la croce e poi legarle attorno allo stendardo avvolto al bastone e scioglierle per la processione. Infine ci fu la ricerca del bastone, lungo e spesso, che dovevamo spolverare e collocarvi, in cima la croce.

La parte più ingombrante,  ma più solenne rimaneva comunque lo stendardo formato da un grande triangolo in raso pesante foderato con un leggero telo in seta dorata.  Al centro, su una base in pelle vi spiccava la figura del santo a cui era dedicato: San Leonardo. Spolverammo, stirammo, ripiegammo il tutto con cura e riverenza quel che da quasi cinquant’anni era divenuto ex voto, simbolo e ricordo di fede, di speranza e, comunque, di profondo riguardo e nei confronti del santo Patrono già custode di tante anime.

Era appunto il voto che mio nonno Giovanni aveva espresso nei confronti di San Leonardo per l’unico figlio maschio molto malato. Era il 1926 e Giovanni e Maria Francesca ben pensarono di confidare nell’intercessione del Santo, per così dire, più vicino. Si adoperarono, tra le difficoltà di allora, alla preparazione dello stendardo senza pensare a risparmiare e in poco tempo lo portarono a termine. Sicuramente S. Leonardo ascoltò quella voce e plaudì il gesto riverente però non rinunciò a chiedergli che il figliolo gli andasse a tenere compagnia presso la chiesa a Lui dedicata. Il giovane morì, colpito da una forma tubercolare piuttosto forte, e ormai da quasi un secolo le sue spoglie riposano  non nella “losa” già sotto la sacrestia ma nel piccolo cimitero attiguo, costruito a cavallo dei due secoli.
Ora avevamo di fronte a noi quel valoroso ricordo, testimone di dolore, di fatica ma anche di rassegnazione che noi pensavamo di portare alla festa per far parte della processione, che si sarebbe ripetuta per tre volte attorno alla seicentesca chiesetta, alle falde del Limbara.

Era la terza domenica di maggio del 1973 e tutto era pronto dalla sera precedente; dovevamo solamente infilare dal tetto apribile lo stendardo in macchina, prendervi posto in quattro e metterci in cammino, mentre l’aurora presentatasi nei suoi colori tenui e smaglianti cominciava a scomparire per dar luogo a una giornata di sole splendido in un cielo pulito e azzurro.

Arrivammo presso la piazza della chiesa e trovato un angolo libero pensammo subito di posteggiare la macchina. All’ora della processione toccò a me prendere lo stendardo e seguire con gli altri il percorso resosi piuttosto caldo per l’assenza di vento. Seguii il tragitto onorato da tanti ricordi, con gli occhi a terra e al cielo, affinché tutto andasse a dovere.

Quello Stendardo vanta quasi un secolo di vita e non dorme più nella casa di campagna che lo aveva assolutamente voluto ma a fianco dell’altare di S. Leonardo. Chiunque oggi può prenderlo e seguire la breve processione che si svolge attorno alla vetusta chiesetta e provare la mia stessa emozione di 44 anni fa.

Paolo Demuru



lunedì 6 febbraio 2017

Il Focolare (Lu fuchili)

"Focolare", colori a cera su cartoncino, Paolo Demuru, 2016
Una volta il fuoco non veniva acceso nel caminetto, sistemato in una parete o all’angolo della stanza ma bensì al centro della camera; il fumo saliva per naturale andare verso il tetto e attraverso le canne  o listelli in legno e poi le tegole guadagnava assoluta libertà consegnandosi ai venti per farsi disperdere nell’atmosfera.

Era questo il focolare (Lu Fuchili), con tutti i suoi attributi e parvenze di affetto e d’unione, d’ordine e di meditazione, di ristoro, di conforto o di complotto. Lu fuchili accoglieva e rappresentava la giovane coppia, la sua prole, i vecchi, la saggezza di chi aveva la barba bianca e l’irruenza dei giovani. Lu fuchili era la casa, la famiglia. Era il luogo dove il lavoratore al rientro dalla dura giornata riponeva tutta la sua stanchezza, accolto dalle premure della consorte, dove il bambino nella culla  emetteva i primi vagiti e accennava le risatine prima del sonno dopo la poppata. Era il luogo della cottura del cibo e del desinare sul tavolo accanto (ho scritto desinare perché il pasto più abbondante non era il pranzo, spesso consumato in modo frugale nella campagna, bensì la cena); vi si arrostiva carne e castagne e volentieri si consumava un bicchiere di vino. Soprattutto si dialogava, si programmava e si spettegolava. Si raccontava di sè e degli altri in modo tragico o ironico a seconda della convenienza o dell’umore di coloro che attorniavano le braci arancioni o la fiamma ballerina sul ceppo di lentischio o di erica. Nessuno presentava le spalle ma tutti avevano la possibilità di guardarsi in faccia l’un l’altro al seppur fioco barlume che proveniva dal centro.

Quando l’argomento diveniva serio, e per varie ragioni non doveva essere appreso dai piccoli, gli adulti e gli anziani usavano un linguaggio particolare solo da loro conosciuto, chiamato l’uspu, che spesso consisteva nel collocare all’interno dei nomi comuni una sillaba aggiuntiva tale da trasformarli e renderli incomprensibili; consisteva nel non pronunciare direttamente il nome di qualcuno ma fermarsi a questo (chistu), quello (chiddhu), il tale (cutalu, lu tali), quello della favola (fulanu o fulana). L’ambiente era unico e la decenza era d’obbligo. La privatezza non era sancita da articoli ma era osservata per usanza e costume.

Nelle lunghe notti d’inverno, sotto la musica della pioggia, si recitavano versi, si cantava qualche canzone amorosa o nostalgica e quando l’urlo del vento o il fragore del temporale in arrivo si mostravano impetuosi, costringendo allo spegnimento la fiammella sinuosa, si portavano a letto i bimbi; si coprivano abbondantemente e gli adulti si facevano ancora più presso i carboni accesi sotto la cenere e in attesa che tutto tornasse a gioire bisbigliavano qualche preghiera.


Paolo Demuru

giovedì 19 gennaio 2017

A proposito di Bernardo De Muro (a prupositu di Birraldinu lu Tinori)


Quest’oggi, sfogliando il mio libro (Cronaca di un Mito - Bernardo De Muro attraverso i quotidiani sardi) mi sono intrattenuto sulle pagine 50 -51 ove il cronista, oltre ad annunciare la manifestazione serale del grande Tenore, rievocava un altro avvenimento importante.

È il primo maggio del 1923 e Birraldinu si trovava a Cagliari per una serie di importanti recite al teatro Margherita  situato nell’omonima via e nella parte in maggior pendenza. Quella sera, nel bel teatro della capitale, doveva andare in onda l’Andrea Chénier, l’opera giovanile di Umberto Giordano, diretta dal maestro Luigi Solari e, poiché anche gli altri interpreti erano di prestigio e conosciuti, si attendeva un certo tripudio di folla. Erano occasioni che i Cagliaritani non si facevano sfuggire. 

Molti ricordavano l’esibizione del gennaio 1916, in piena guerra mondiale, quando il nostro artista si era esibito per beneficenza in favore delle vedove del tremendo conflitto.

L’autore dell’articolo colse l’occasione per rievocare una sua personale impressione colta direttamente a Venezia, tre anni prima, del Tenore gallurese. Ne racconta l’evento, il plauso della città lagunare attribuito per la riuscita dell’esibizione nel teatro Malibran la sera del 22 aprile 1920. Molti amanti del bel canto avevano disertato il teatro La Fenice, presente Giacomo Puccini, per dirigersi verso piazza S. Crisostomo con tutta l’intenzione di ascoltare ed applaudire il Tenore sardo cercando di scrollarsi un po’ del peso ancora incombente della non facile guerra.

A testimonianza dell’accorato tributo veneziano voglio trascrivere il sonetto di un anonimo ammiratore che l’autore dell’articolo dell’Unione Sarda del maggio di 83 anni fa semplicemente trascrisse, seguito da sobrio commento, visto il calore dei versi citati.

Nella gloria magnifica e divina
di Venezia ove l’arte ha culla e trono,
ogni anima alla tua arte s’inchina
presa e rapita dal superbo dono

del tuo canto che è bacio ed è carezza,
che è squilla fiammante di vittoria
che in se racchiude tutta la bellezza
che il tuo cammino sfolgora di gloria.

E commossa la folla estasiata
acclama: “Gloria a te, Divo e Signore,
gloria infinita” ed ecco appassionata

come la voce d’un fremente Iddio,
la tua voce vivrà nel nostro cuore,
perennemente nel nostro desio.

Neanche io mi permetto di aggiungere altro ai versi dell’anonimo se non, involontariamente, il freddo  di questo gennaio un po’ insolito.


Paolo Demuru