mercoledì 2 maggio 2018

Li petri d’agliola, Le pietre di...

Massi per aia

Andiamo con calma, ma con dovuta decisione, a scoprire il significato e l’uso di alcune pietre o massi di modeste proporzioni. Se dovessimo fare riferimento al peso di tali massi possiamo dire che esso si poteva aggirare sui 40, 50 chilogrammi. Generalmente erano preferiti e scelti di forma allungata e che avessero verso una estremità qualche strozzatura; qualora non ci fosse si cercava di farla con l’ausilio di martello e punta in acciaio. Anche se non erano pezzi di particolare valore, venivano conservati con cura dopo l’uso, per un riutilizzo che poteva avvenire dopo un anno e per diversi anni. Non erano opere d’arte in quanto la mano dell’uomo poco vi interveniva ma erano utili e preziosi per il lavoro che contribuivano a svolgere e per la storia umana che oggi potrebbero essere in grado di ricostruire per i nostri nipoti.

Spesso trascorrevano un intervallo di inutilità di circa un anno esposti ai lati di antiche arene circolari con il pavimento in lastre di granito o spiazzi in terra battuta dove la gramigna faceva di tutto (con le sue radici penetranti e fitte) per compattare il terreno.
Le arene erano le antiche aie come pure gli spiazzi dotati di gramigna, benché più semplici, ma nelle cui entrambe aree venivano ammassati i covoni  di grano, orzo o avena in attesa di essere mondati da paglia e pula. Stiamo parlando di lu rotu, pavimentato in granito (rotu a impetratu) o terra battuta (rotu a pamentu): in quest’area i covoni venivano liberati dal laccio che li recingeva e il contenuto sparso alla rinfusa (a un’agliòla) per l’operazione di triturazione delle spighe e liberazione delle cariossidi.

L’operazione, semplice ed usuale in passato, avveniva con un concerto contemporaneo di vari mezzi e persone. Venivano introdotti nell’arena alcuni gioghi di buoi che con i loro zoccoli ferrati compivano già un certo lavoro ruotando in cerchio sulle spighe arse, le scarpe chiodate dei massai che conducevano il giogo compivano anch’esse la loro parte. Ad ognuno di quei massi o petri d’agliola veniva assicurata alla strozzatura una fune per un capo mentre l’altro legato al giogo e quindi trascinati dallo sforzo dei buoi. Tutto questo movimento, cadenzato e ordinato era capace di conseguire lo scopo già accennato. 

Oggi l’agliòla è stata sostituita dalla trebbiatura e quest’ultima dalla mietitrebbia ed, infine, dall’importazione del grano da paesi lontani questo mio excursus sa quasi di fiaba. Oggi quelle pietre non avrebbero più senso, se non quello di essere i testimoni di un passato ripetutosi per millenni, sorpassato tuttavia velocemente dalla tecnologia e dal mercato mondiale, e sempre più monopolizzato, il quale senza riverenza alcuna travolge le civiltà, la storia e... l’uomo stesso.

A Balascia, nell’area del Museo, fino ad una decina di anni fa vi erano tre petri d’agliola, poggiate al vecchio muro ed a una cinquantina di metri dai ruderi del Nuraghe Ruju, resti indiscussi di memoria, attigui allo spiazzo ricco di gramigna dove per anni hanno svolto il delicato compito a cui la nostra cultura ed identità li aveva chiamati. Di quelle tre testimonianze per noi soltanto inconfondibili, due sono scomparse da tempo, asportate... trafugate da mani insensibili, appropriatesi di oggetti, che allontanate dal loro naturale contesto e private della loro storia, sono senza valore alcuno. L’altra, scampata all’unghia lunga del precedente atto indegno, è da tempo difficile da localizzare. Sarà ben nascosta dalla vegetazione e quindi al sicuro da intenzioni indiscrete o sarà finita anch’essa tra misere mani?
Sarò felice di smentire quest’ultima mia insinuazione quando l’avrò riscoperta tra i rovi, sana e salva, disposta a raccontarmi ancora la sua storia; allora io sorriderò volentieri perché il suo passato è stato anche il mio!

Paolo Demuru