sabato 29 dicembre 2018

Il mio viaggio a Balascia. Articolo di Lorenzo Di Biase.

Di seguito un articolo scritto dal Prof. Lorenzo Di Biase, il quale riporta le sue riflessioni sul viaggio che lo portò a visitare Balascia.

Balascia, chiesa di San Giovanni, foto di Lorenzo Di Biase

Balascia, campanile della chiesa di San Giovanni. Foto di Lorenzo Di Biase.
Mi recai a Balascia per effettuare un servizio fotografico a me necessario in quanto sono l’autore del libro titolato “DON FRANCESCO MARIA GIUA. L’UNICO PRETE SARDO CONFINATO DAL REGIME FASCISTA”, edito dall’A.N.P.P.I.A. Sardegna nel 2010.

Il libro racconta le vicissitudini vissute dal prelato a seguito di una delazione circa un sermone da lui tenuto durante una messa domenicale nella chiesetta di Balascia, poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale. Questo fatto fu portato alla conoscenza dei Reali Carabinieri di Ozieri che istruirono la pratica, dopo aver raccolto la denunzia di un abitante della piccola frazione montana. Denuncia che però fu rafforzata dal fatto che alla fine furono ben quattro abitanti che la firmarono. Alla fine  la Commissione Provinciale per l’Ammonizione ed il Confino di Polizia riunitasi a Sassari, nel Palazzo della Prefettura, in data 19.06.1940 condannò Don Giua, che continuava a dichiararsi innocente, a due anni di confino di polizia da scontare in Basilicata nella località di Pisticci. Don Giua venne accusato di disfattismo e di essere pericoloso in linea politica. Egli partì dunque per l’esilio anche se in seguito la Commissione per l’Appello ridusse la condanna ad un solo anno.

Dunque il fascismo irruppe prepotentemente nel piccolo borgo di Balascia, un luogo montano della bellissima Gallura composto da un modesto raggruppamento di case e di abitanti all’epoca tutti dediti alla pastorizia e all’agricoltura. Un luogo isolato in cui domina la pace con una natura ricca ed affascinante in cui gli alberi e gli arbusti sardi spadroneggiano indisturbati anche se spesso sono piegati dalla forza del vento, che riesce persino a modellare i maestosi graniti galluresi.

Vi arrivai una domenica mattina d’inverno. Una mattina carica d’umidità e di nebbia ma senza pioggia. Il cielo risultava coperto da uno spesso strato di nubi. Insomma, una tipica giornata invernale davvero fredda e certamente non invitante per gite fuori porta. Attraversai il paese di Oschiri senza incontrare né traffico né persone. Qua e là mi imbattevo in un bar aperto ma non si vedeva nessuno, perché alcuna persona si avventurava in giro per le strade ed i marciapiedi risultavano desolatamente vuoti. Inforcai la strada statale per Tempio Pausania e su un ponte oramai datato attraversai il lago del Coghinas coperto da una fitta nebbia che pian pianino cercava di salire verso l’alto, verso i monti. In effetti l’acqua neanche si vedeva e sembrava di galleggiare su un mare di nebbia. Il silenzio era inquietante. Io continuavo a procedere con un’andatura lenta per godermi lo spettacolo della natura ma con una certa paura dettata dall’essere circondato dal nulla. Anche gli  animali erano spariti. Nessuna traccia di mucche né di pecore e neanche di uccelli. C’era il vuoto! Tutto evidentemente era ancora addormentato. Per altro io non sapevo di preciso dov’era la strada per Balascia se non un generico indizio che prima o poi avrei trovato una indicazione. E così fu. Dopo aver lasciato alla mia sinistra una casa abbandonata e aver effettuato un imprecisato numero di curve davvero impegnative raggiunsi il Passo del Limbara e subito dopo svoltai a sinistra alla volta di  Balascia. La strada era indicata da un cartello di colore bianco riportante BALASCIA con una  scritta in nero. La percorsi. Era decisamente stretta ma asfaltata, circondata da maestosi graniti e da una fitta vegetazione tipicamente sarda, che mi portò ad un agglomerato di case, una ventina ad occhio e croce, e alla Chiesa di San Giovanni Battista, piccola ma accogliente e direi decisamente carina. Qui trovai parcheggiate un paio di autovetture. Tutte le case rigorosamente chiuse, così come anche la chiesetta. La nebbia che ancora opprimeva il paesaggio. Ma almeno c’era segno di vita. Un paio di cani abbaiavano in lontananza, sicuramente disturbati dal passaggio della mia autovettura.
Pensai di aver fatto un viaggio a vuoto. Sicuramente ero partito molto presto ed arrivai a Balascia attorno alle nove e un quarto del mattino. Girai a piedi nelle stradine del borgo per poi convergere sul sagrato della chiesa e lì pensi a Don Giua. Alla sua omelia domenicale innanzi ad ottanta persone ed alla sua frase incriminata “l’Italia era alla vigilia della guerra la quale sarebbe stata guerra di distruzione dell’umanità”. Lui inoltre era solito trattenersi a fine messa per parlare coi fedeli, per scambiare quattro chiacchiere prima del pranzo domenicale. E lì parrebbe che egli, quasi proseguendo il suo sermone, disse che per evitare la guerra “bastava eliminare Hitler e […]”.
Pensai che queste affermazioni certamente non potevano recar alcun danno al potente regime fascista. Quale rovina poteva arrecare un umile prelato di campagna al potente regime fascista?  In effetti poi un uomo di chiesa com’era Don Giua non poteva che sostenere che la guerra portava lutti e distruzione e dichiararsi a favore della pace. Dubito poi seriamente che la frase su riportata e pronunciata nel sagrato della chiesa possa essere stata per davvero detta dal sacerdote. Ma tant’è. Il pugno duro del regime si abbatté senza nessun tentennamento a Balascia schiacciando sia l’uomo che il prete che fu sradicato dalle sue abitudini quotidiane per venire prima arrestato e poi tradotto a Pisticci con i ferri ai polsi, circondato da un nugolo di Carabinieri e di Camicie nere, come se fosse un delinquente della peggior specie. Perché per il regime fascista gli oppositori politici erano peggio dei delinquenti comuni. Venivano considerati degli appestati e come tali isolati.
Balascia è tutto questo per me. E’ sì un borgo ameno, sperduto nei monti galluresi, ricco di una splendida  natura selvaggia. Ma per me è anche un luogo carico di storia dove è stata scritta una oscura pagina a cura dell’imponente macchina repressiva fascista. La delazione. La denuncia. L’arresto. Il confino. Un curato di campagna contro Mussolini. Allora vinse Mussolini. Ma Don Giua rientrò dal confino per riprendere il suo incarico di vice parroco ad Oschiri anche se poi fu trasferito a guidare la parrocchia di Nughedu San Nicolò sino al suo pensionamento. Ma egli rimase sempre legato ad Oschiri al punto che nel suo cimitero riposano le sue mortali spoglie.
Lorenzo Di Biase


giovedì 6 dicembre 2018

Il Museo nel bosco - La mia isola - Itinerari -



Ecco l'articolo apparso su
La Nuova Sardegna del 1° Dicembre,
a cura del Prof. Giuseppe Pulina.

Nella prima foto il monumento alla flora e alla fauna locali. Nella seconda pagina, nella prima foto, l'autore in compagnia del poeta e scrittore tempiese Pasquale Ciboddo, presso il monumento al cantore di Gallura Luigino Cossu.

Seguono, il panorama del lago Coghinas visto dalla punta di Lu Muvroni, la statua di N.S. di Balascia e infine uno scorcio del monumento a Fabrizio De André




venerdì 29 giugno 2018

Progetto culturale in difesa dell'ambiente nel nostro Museo all'Aperto

Testo poetico in Gallurese


Con questa prima epigrafe su lastra di rame abbiamo dato inizio al nostro progetto culturale relativo all'esposizione, all'interno del nostro Museo all'Aperto, di poesie o sillogi riguardanti la natura, affinché il Museo diventi anche un luogo di riflessioni riguardo al rispetto e alla difesa dell'ambiente.




mercoledì 20 giugno 2018

Questa mattina... in un sogno...Il Mulino ad acqua

Idealizzazione di uno spaccato del mulino idraulico costruito dal Cav. Bua sul torrente Lu Riigghjolu alla fine dell'800.

Questa mattina mi sono svegliato piuttosto presto, ho guardato l’ora e mi sono permesso di indugiare ancora un po’ a letto e un sonno leggero mi ha pervaso; quel sonno mattutino che spesso si carica di riflessioni, di rimembranze, di sogni che appena svegli si dimenticano. A me il sogno di questa mattina è rimasto impresso e ve lo voglio brevemente riepilogare. Forse non godrà l’interesse di molti, ma quello mio personale e quello di un certo ragazzo sicuramente sì: si tratta di un fanciullo che già è venuto a rendere il mio sonno vagamente impegnato altre volte, in passato.

Questa mattina mi è dato di incontrarlo indaffarato presso un minuscolo ruscello che a maggio, in quei piovosi anni cinquanta ancora scorreva vivace, superando pendii tra rapide, cascatelle e qualche breve ansa, presso la casa in cui era nato e vi aveva trascorso appena un paio di lustri. Incontrato, come ho detto, alle prese con un tronco di canna che aveva spaccato e intendeva usare per prelevare dell’acqua prima di una cascatella ed incanalarla a modo di acquedotto.

Aveva sistemato le due canne in posizione di tegola per trasportare l’acqua il più lontano possibile, sì da farle fare un bel salto, o cascata. Per sostenere l’acquedotto pensile aveva usato forche di legno conficcate all’estremità inferiore nella terra umida ai margini del piccolo corso d’acqua. Osservò il liquido scorrere nelle canne che dopo un certo salto già scavava la sabbia umida fra il crescione e la menta che vi erano verdi e tenere. Vi pulì accanto un piccolo spiazzo e corse verso casa, pensando ad una prova, anzi, ad un collaudo vero e proprio. Cercò, frugò in un nascondiglio segreto a fianco del muro che si trovava all’interno dell’orticello che fiancheggiava la sua casa e ne trasse un modesto marchingegno in legno e sughero; collocatolo sotto il braccio destro corse al ruscello.

Collocò il manufatto a fianco all’acqua che scendeva trasparente dalla canna che già schizzava sui cucchiai in legno collocati sulla circonferenza di una ruota in sughero che subito cominciò ad accennare la sua rotazione che attraverso l’albero doveva far muovere un semplice ingranaggio atto a trasformare il movimento orizzontale in verticale.

In cima all’asse verticale vi era solidale una ruota piena che ruotava a contatto dell’altra inferiore fissa attraverso la quale passava l’alberino in movimento. Il collaudo che si aspettava non aveva tradito, si era manifestato secondo le sue attese, almeno finché il legno ed il sughero non avevano assorbito tanta acqua da  rallentarne o impedirne i movimenti.

Mentre il fanciullo si godeva lo spettacolo, ripagato e soddisfatto, vide in lontananza il proprietario dell’area che approssimava e sarebbe passato proprio in quel punto. L’imbarazzo fu tanto, pur sicuro che non l’avrebbe ripreso. Non voleva, in ogni caso,  affrontare il confronto diretto e si nascose dietro un giovane ilatro, coperto abbondantemente di ‘itialva (clemàtide) che lo rendeva quasi impenetrabile.

Da quella posizione, sicuramente non visto, aveva osservato l’uomo, poco più che cinquantenne, avvicinarsi al guado e, sul punto di allungare il passo per saltare il rigagnolo fermarsi un attimo, osservare il manufatto in movimento con una smorfia compiaciuta, tra le libellule nere che volavano indifferenti. Quando l’uomo era ormai scomparso dalla vista il giovinetto tolse le canne, e le strinse con una mano, prese sottobraccio il prototipo gocciolante e scappò velocemente verso casa. Era soddisfatto di avere riprodotto in miniatura il mulino idraulico che per mezzo secolo vi aveva girato a poche centinaia di metri.

Per me il sogno mattutino, che per un attimo mi aveva portato in una lontana e nostalgica realtà, svanì consegnandomi a ben altre premure.


Paolo Demuru

giovedì 7 giugno 2018

La mandria di Balascia (la mandra di Balascia)

La Mandra di Balascia
A Balascia, nell’area del Museo Tematico all’Aperto, tra le altre tracce visibili del lavoro umano vi sono i ruderi di due mandrie, sorta di recinti costruiti  in muratura a secco, di ricovero per il gregge. Parlare di una di queste è, senza dubbio, tornare un po’ indietro, non tanto nel tempo come tale, quanto nel processo economico sociale che, dico io, in sì breve volgere di anni ce ne ha allontanati. Cercando, appunto, di fare memoria attraverso il polverone che ci divide e facendoci condurre da quel filo immaginario che ci può unire, vediamo se, in breve,  è possibile manifestare il mio intento.

La mandria, nella vita agro pastorale di anni addietro assumeva importanza quasi vitale per i rapporti tra gregge (di capre soprattutto) e pastore; per questo la sua collocazione nell’azienda godeva di non poca riflessione. Tra le tante opportunità che doveva assolvere vediamone alcune: vicinanza alla casa del pastore, luogo asciutto, base solida, in leggera pendenza e al riparo dai venti.

Il recinto, spesso, era alto e sormontato da (lu rasittu) frasche dure e pungenti (rami di ginepro) per dissuadere le capre dal loro facile saltare. L’unico accesso era assicurato da un cancello  in legno (la ‘jaca) di ginepro od olivastro (nibbaru o uddhastru) costruito dallo stesso pastore. Poteva aprire verso l’interno o l’esterno poiché il perno era sistemato, solitamente, al centro del muro che lo reggeva. Il fermo era sovente risolto con due legni amovibili che conficcati nel muro, nel lato opposto al perno, ne assicuravano la chiusura e ne favorivano l’apertura.

Una pertinenza immancabile illa mandra capruna era (lu salconi)  il ricovero dei capretti destinati alla commercializzazione. Si trattava di un tunnel o corridoio a sezione triangolare con ingresso dall’interno della mandria e corpo esterno ad essa. Questo particolare era quello che distingueva la mandria delle capre da quella delle pecore, generalmente più semplice e spesso un chiuso risolto semplicemente con cisto (mucchju) o frasche simili, e che aveva pavimento in pietrame e pareti interne in tronchi che si incontravano verso l’alto per essere coperti ancora con zolle di terra o pietrame stesso.  I tronchi potevano essere sostituiti da lastre in granito le cui estremità superiori si incontravano per assicurare la maggior stabilità.

Una mandria poteva avere uno o più salconi, a seconda della capienza o della quantità dei capi che componevano il gregge. Altro particolare era il sistema di chiusura: una sorta di tronchi di lunghezza decrescente verso l’alto erano tenuti da due tronchi conficcati nel terreno che seguivano la stessa geometria della sezione del ricovero e ben fissati all’estremità superiore. L’apertura e la chiusura avvenivano togliendo o  aggiungendo gli appositi legni nella successione appena annotata. La stessa mandria poteva disporre di vani laterali, nel muro perimetrale, necessari per appoggiare contenitori o altri oggetti necessari alla miglior conduzione della vita pastorale.

I capretti, come accennato, non dovevano da subito seguire le madri al pascolo, poiché si sarebbero esposti a molti pericoli da parte di predatori, sarebbero subito dimagriti e l’approccio con le essenze vegetali che sarebbero andati brucando potevano togliere gusto alle loro carni pregiate; inoltre avrebbero succhiato dalle madri tanto latte che il pastore non ne avrebbe avuto abbastanza da poterlo trasformare in formaggio, direttamente o indirettamente, né assumerne lui stesso per il suo necessario sostento.

Altra caratteristica riscontrabile nella mandra capruna poteva essere la parte coperta con frasche (lu barraccu) per dare al gregge e al pastore mero riparo durante la mungitura e, dopo, mentre consegnava i capretti alle rispettive madri per la poppata serale o del mattino.

In questi ambienti si esprimeva il pastore, tra i rigori delle stagioni e gli imprevisti più vari che potevano  riguardare malattie e morienze di capi o scarsità di pascolo, poca resa di latte, carenza di capretti da destinare alla vendita e, non ultimo, calo di prezzo del prodotto.

Il suo vivere poteva essere sano, spensierato e bucolico ma spesso  si manifestava in sacrifici e attese mai compensate. Non sempre il canto che esprimeva dietro il gregge veniva da soddisfazioni ma bensì dalla necessità  di dare ragione alla su stanchezza e senso alla sua solitudine. Non nella certezza ma nella speranza i pastori del mondo e di questa contrada hanno tradotto la vita fino a noi; ora la ricerca sfrenata del più e del meglio ci ha introdotto in una nuvola ingannevole dalla quale pare trapeli sempre,  maggiore arrendevolezza e meno serenità....

Paolo Demuru


mercoledì 2 maggio 2018

Li petri d’agliola, Le pietre di...

Massi per aia

Andiamo con calma, ma con dovuta decisione, a scoprire il significato e l’uso di alcune pietre o massi di modeste proporzioni. Se dovessimo fare riferimento al peso di tali massi possiamo dire che esso si poteva aggirare sui 40, 50 chilogrammi. Generalmente erano preferiti e scelti di forma allungata e che avessero verso una estremità qualche strozzatura; qualora non ci fosse si cercava di farla con l’ausilio di martello e punta in acciaio. Anche se non erano pezzi di particolare valore, venivano conservati con cura dopo l’uso, per un riutilizzo che poteva avvenire dopo un anno e per diversi anni. Non erano opere d’arte in quanto la mano dell’uomo poco vi interveniva ma erano utili e preziosi per il lavoro che contribuivano a svolgere e per la storia umana che oggi potrebbero essere in grado di ricostruire per i nostri nipoti.

Spesso trascorrevano un intervallo di inutilità di circa un anno esposti ai lati di antiche arene circolari con il pavimento in lastre di granito o spiazzi in terra battuta dove la gramigna faceva di tutto (con le sue radici penetranti e fitte) per compattare il terreno.
Le arene erano le antiche aie come pure gli spiazzi dotati di gramigna, benché più semplici, ma nelle cui entrambe aree venivano ammassati i covoni  di grano, orzo o avena in attesa di essere mondati da paglia e pula. Stiamo parlando di lu rotu, pavimentato in granito (rotu a impetratu) o terra battuta (rotu a pamentu): in quest’area i covoni venivano liberati dal laccio che li recingeva e il contenuto sparso alla rinfusa (a un’agliòla) per l’operazione di triturazione delle spighe e liberazione delle cariossidi.

L’operazione, semplice ed usuale in passato, avveniva con un concerto contemporaneo di vari mezzi e persone. Venivano introdotti nell’arena alcuni gioghi di buoi che con i loro zoccoli ferrati compivano già un certo lavoro ruotando in cerchio sulle spighe arse, le scarpe chiodate dei massai che conducevano il giogo compivano anch’esse la loro parte. Ad ognuno di quei massi o petri d’agliola veniva assicurata alla strozzatura una fune per un capo mentre l’altro legato al giogo e quindi trascinati dallo sforzo dei buoi. Tutto questo movimento, cadenzato e ordinato era capace di conseguire lo scopo già accennato. 

Oggi l’agliòla è stata sostituita dalla trebbiatura e quest’ultima dalla mietitrebbia ed, infine, dall’importazione del grano da paesi lontani questo mio excursus sa quasi di fiaba. Oggi quelle pietre non avrebbero più senso, se non quello di essere i testimoni di un passato ripetutosi per millenni, sorpassato tuttavia velocemente dalla tecnologia e dal mercato mondiale, e sempre più monopolizzato, il quale senza riverenza alcuna travolge le civiltà, la storia e... l’uomo stesso.

A Balascia, nell’area del Museo, fino ad una decina di anni fa vi erano tre petri d’agliola, poggiate al vecchio muro ed a una cinquantina di metri dai ruderi del Nuraghe Ruju, resti indiscussi di memoria, attigui allo spiazzo ricco di gramigna dove per anni hanno svolto il delicato compito a cui la nostra cultura ed identità li aveva chiamati. Di quelle tre testimonianze per noi soltanto inconfondibili, due sono scomparse da tempo, asportate... trafugate da mani insensibili, appropriatesi di oggetti, che allontanate dal loro naturale contesto e private della loro storia, sono senza valore alcuno. L’altra, scampata all’unghia lunga del precedente atto indegno, è da tempo difficile da localizzare. Sarà ben nascosta dalla vegetazione e quindi al sicuro da intenzioni indiscrete o sarà finita anch’essa tra misere mani?
Sarò felice di smentire quest’ultima mia insinuazione quando l’avrò riscoperta tra i rovi, sana e salva, disposta a raccontarmi ancora la sua storia; allora io sorriderò volentieri perché il suo passato è stato anche il mio!

Paolo Demuru

martedì 10 aprile 2018

Immagini

Paolo, 1958

Questa è l’immagine di un ragazzino di un tempo ormai passato che ogni tanto mi capita di incontrare e, solo per brevità, non vi dico quanto  tempo  sia trascorso da quand’era così giovane. Vi dirò semplicemente che è la foto di un carissimo amico che per giocare si era dovuto costruire i giocattoli da sè; inventandoli ed adattandoli a situazioni e condizioni specifiche e particolari. Li costruiva con inventiva e soprattutto con passione affinché quei manufatti non fossero solo occasioni di  distrazione o peggio di arido perditempo ma bensì l’espressione di sè stesso e delle sue attese. Erano le miniature di realtà umane, capaci di soddisfare veri ed impellenti bisogni, prove di riuscita e allo stesso tempo trastullo semplice e sano.

Durante un colloquio che ho avuto di recente, mi ha anche confessato che varie volte fu tentato di pescare qualche trota nel torrentello vicino alla sua casa ma l’unica volta che ne ebbe afferrata una, prima di uscire all’asciutto  la soddisfazione si tramutò in delusione profonda perché il pesce era di nuovo libero in acqua.

Costruiva le barchette in sughero e, stanco di vederle in movimento solo affidandole alla corrente, ne munì qualcuna di elica e all’elica vi collegò un elastico, girando l’elica a mano in senso tale che allo srotolamento  la rotazione dell’elica faceva muovere per un certo tratto la barchetta. Ma se questa era provvista di timone e posto in una certa inclinazione la barca poteva seguire un percorso circolare e tornare al punto di partenza; comodo, no?

Aggiunse che si intestardiva a portare e riportare il maialino da latte al centro del guado per vederlo nuotare fino a riva ma questi si spazientì e gli lasciò un segno indelebile sul pollice destro... che dovette asciugarsi  al sole prima di presentarsi in casa il giorno che aveva usato per barca il contenitore in alluminio che la mamma riservava per portare al fiume i panni da lavare... che per catturare il vento costruiva eliche di asfodelo o di ferula quando queste essenze erano seccate al sole.

Ma un giorno egli partì per un paese piuttosto distante, la brezza rimase indisturbata e le trote nel fiume non corsero più rischi dalle sue maniAnzi, spiegava che in seguito, venne a sapere che le trote scomparvero subito dal torrentello della sua infanzia perché pescate da altre mani di maggior presa.. Pure l’acqua prese a scorrere sempre meno per via delle scarse piogge. E il maialino, e la barchetta che pur fecero tanta storia per quel ragazzino? Bene, solo storia, solo immagini, solamente Ricordi fissati, indelebili nella mente di chi li ha vissuti. Per questa volta quel giovincello di tanti anni fa non mi ha confidato altro... se dovesse farlo ancora non farò a meno di riferire, con la stessa fedeltà e premura di oggi, sicuramente.


Paolo Demuru

venerdì 30 marzo 2018

sabato 24 marzo 2018

Il ritratto

Il mio ritratto
Qualche giorno fa Barbara si è presentata a me con matite e album da disegno:
-Voglio farti un nuovo ritratto, sei disponibile?-
L’idea non mi è dispiaciuta e, considerando il fatto che in tal operare è piuttosto svelta, ho acconsentito volentieri alla fatica di trascorrere il tempo necessario quasi immobile nella stessa posizione.

Realizzare un ritratto è una fatica, un esercizio, ma anche un gioco per chi lo esegue, quale che siano la tecnica e i materiali usati. È quasi sempre una sorpresa invece per il soggetto rappresentato, quando si alza e si vede impresso su tela, legno o cartone. Anche la persona più esperta non immagina come sarà vista in quel particolare momento e, soprattutto, interpretato e realizzato dall’artista.

L’uomo col suo occhio può essere solito vedersi riflesso nell’acqua, su di uno specchio, su una lastra alquanto levigata ma non si vedrà mai attraverso l’occhio altrui se non qualora questi, con ingegno e mezzi, lo traduca in realtà visiva; in un ritratto. Tutto questo percorso può portare a legittima sorpresa da parte di chi si sottopone al supplizio dell’immobilità, dell’intorpidimento e non ultimo del sonno, qualora i tempi si allungassero... Sì, sono rischi che si corrono se l’artista è sovente colto da ripensamenti, indecisioni o dal tarlo di non soddisfare alquanto il cliente, o meglio, il paziente che per distrarsi, già si immagina con doti che non avrà mai avute, benché sperate in quell’occasione rara o forse unica.

Come affrontare, o meglio, come potrebbero i due soggetti uscire dal ginepraio in cui si sono cacciati ambedue, per curiosità e per orgoglio? Forse un protocollo o ricetta vera e propria non esiste. Se l’artista si pone il problema di rincorrere la soddisfazione del cliente attraverso miglioramenti fisici rischia che l’opera perda di freschezza, di semplicità, di originalità ed egli stesso di serietà. Dall’altro versante, se il cliente avesse simili aspettative immaginerebbe un ritratto in cui potrebbe apparire simile ma non vero, forzato e pesante, quasi una controfigura di persona, sì,  ma priva di personalità.


Comunque è bene non drammatizzare troppo...  nel peggiore dei casi, si spera che sia l’artista a persuadere con buone maniere il suo paziente che in quel fatidico momento, breve o snervante che fosse, la figura rappresentata era proprio la sua, benignamente filtrata attraverso i propri occhi e tradotta sulla tela con le sue mani, in tutta verità e sincerità. Qualora il paziente si riprendesse in tempi ragionevoli avrebbero entrambi un certo futuro.

Paolo Demuru

mercoledì 14 marzo 2018

Un Gatto nel “Museo"

Il gatto del Museo

Qualche settimana fa ero a Balascia in gradita compagnia di amici, e del Museo all'aperto. Al rientro pomeridiano, dopo il solito frugale e veloce pranzo, abbiamo avuto la gradita sorpresa di un ospite garbato e delicato. Garbato per il suo apparire semplice e fiero, disinvolto e affettuoso, delicato perché il suo passaggio, leggero e rispettoso, non lascia tracce che in qualche modo possano turbare la quiete e l’armonia che dovrebbero legare la natura con gli esseri che la popolano.

Si è trattato di un bel gattone dalla pelliccia lussuosa, pulita e rossiccia, dal passo lento e quasi cadenzato, dallo sguardo felice. Si è avvicinato a noi, in tutta confidenza e rispetto, strusciando più volte la sua faccia e il suo corpo ai nostri pantaloni, per darne, secondo me, assoluta prova. Ci ha accompagnato devotamente per tutti i nostri spostamenti, anche a lunga distanza, più spesso seguendoci ma talora precedendoci, dopo le nostre fermate. 

Al nostro richiamo, sempre più insistente, non mancava mai da parte sua un segnale, un cenno, uno sguardo, di apprezzamento o comunque di interesse da parte sua al nostro interloquire. Probabilmente era solito recarsi nell’area dell’Oasi in vaghe escursioni di caccia o solo d’amore, tanto era spensierato e a suo agio ovunque ci ha seguito. Certo, qualche peccatuccio l’avrà pur commesso, ma sempre per lo stomaco e non per cattiveria o insano agire. Qualche uccellino lo avrà predato, abbandonandone le piume dopo il dovuto cerimoniale, e lucertole al sole ne avrà avvinghiato, liberandosi esse inutilmente della loro coda per distrarlo dal crudele pasto...

Di tutto questo e per null’altro reo, se non per la vita e per conservare la specie, per competizione sacrosanta e naturale e per rispondere fedelmente a leggi severe dove si distingue e si identifica la vita stessa. Anche l’uomo si è dato leggi severe, fino ad essere a volte poco chiare e interpretabili; intanto l’abilità umana è misurata, non con il metro dell’osservanza e del rispetto, bensì, con quello, fallace per tutti, del disimpegno o della trasgressione.

A questo punto mi giova sentitamente tornare al mio ospite, distinto nell’atteggiarsi e composto nel suo fare fino al momento duro del congedo. Quando la nebbia leggera, spinta dal vento, aveva avvolto noi nell’area della nostra escursione e il felino dalla pelliccia striata, decidemmo di salutarlo con l’auspicio di incontrarlo ancora.

Ci osservò negli ultimi preparativi seduto e attento e quando lo riverimmo di sfuggita, prima di chiudere la portiera della vettura, il suo sguardo si era già fatto serio e malinconico, un po’ come il nostro, pensando che le sensibilità che vanno scemando negli uomini possiamo ravvisarle, meno male, ancora nel volto dei nostri compagni di viaggio qualora per un attimo gli degnassimo di uno sguardo.

Paolo Demuru

giovedì 1 marzo 2018

Lattoni, lu frailagghju

Dentista, Paolo Demuru, 2018

Vi focciu un contu avvinutu tempu fa, ma d’avveru, in una ‘iddha di la Gaddhura. Antonimaria era un ciòanu di tutt’altu sanu e valenti, cuiuàtu da pocu e illu meddhu pisà la familia. 

Com’agghju dittu, netitu e bonu ma di dentatura minguenti. Denti nill’era ‘inutu mancu altu senza dulori e fastidiu ma, da pocu aìa un massiddhaleddhu chi l’era paldimintendi: piccheddhi a nott’e di e attediu pal dugna cosa da no pudessi cumbattà manc’a ghjettu. 

La cummari, chi stagghjìa a fiancu, arries’a lu puntu di sigrittassi la muddheri e impunilla in chistu ‘essu:
-Palchì no li puniti in capu d’andà unde Lattoni, lu frailagghju, chissu ni sa più di lu diaulu... inventa, impriasta, faci e poni... ca lu sà chi no li faccia calche maìa di falli be’-? 

-Uài, cummari mea-, rispundisi l’alta, -pa lu bonu sia lu chi m’aèti pruppostu, appena torra, si no è spasimatu da lu dulori villa dicu e spiremu d’avviltinni middhori; ghjà n’aemu bisognu cu li steddhi minori in fila e un’altu arriendi...-

Appena turresi Antonimarìa, maccari affrittu e attidiatu ascultesi tuttu lu chi li disi la femina e subbitu ci scisi dizzisu a intindè lu chi l’arìa dittu Lattoni, lu frailagghju.

Chistu trabaddhàa in un pindiacciu spaddh’a ventu; a perra di drentu nieddhu più di lu ‘farru, illi muri e illi trai. Ancora li passoni, una ‘olta ‘ntrati, pariani paldì dugna sumiddha e turrassi nieddhi come lu calboni chi brusgiàa ‘llu fraili. Lu malcappittatu appena passatu lu mitali s’accustesi a l’omu c’era pistendi farru caldu e li disi, abbrendi la bucca e tucchndis’a una perra:
-Figghjulami chistu casciali chi m’è fendi paldì lu sintitu...-

Lu maniscalcu, ghindendilu a occhj’a ghjanna, sill’astrolachesi be’ a fundu cumputendi cu li mani nieddhi, pal sincerassi di lu di fa. Dachi vidisi be’ la situazioni li disi:
-Accòllu lu denti chi ti doli, tant’è veru chi si moi, aspetta chi li femu la midicina...-.  
Andes’a un’almarieddhu chi v’era ‘llu muru e ni buchesi unu spau longu e ben’impiciatu, lu liesi a lu casciali cu un bon nodu e invitesi Antonimarìa a pusassi addanazi a l’alcotina, a undi lu liesi, prichendilu di stassi mut’e chiettu. Un omu chi v’era da primma rittu e cuntrastendi silli punisi a li spaddhi e Lattoni alligresi lu focu ‘llu fraìli. 

Punisi illu calboni ‘ncesu un farru a ‘rruì sempri ciavanendi cu l’amicu. Candu s’avvidisi chi chiddhu farru era a puntu di scagghjassi lu piddhesi cu la tinaddha e l’accustesi furriosu a li tivi d’Antonimarìa. Chistu, a la ‘ista di lu foc’arriendi, des’una ‘nculdata in daretu. Sarìa maccari cadutu da lu banchitti si l’omu ch’aìa a li spaddhi no l’aìssia mantesu ten’a pisassinni cilchendisi lu bunettu chi, pal fultuna, aìa ancora ‘n capu. 

Dachi s’aìsi appena, Lattoni li des’a bucciddhà una buccata d’acetu da un’ambula nieddha chi buchesi da l’almariu di lu spau. Cu la mani illa spadda l’accumpagnesi a la sciuta, ancora sustu; però chena lu denti... chena dulori, senza spesi e nè riciuta.

Chistu avvinisi ‘n viritai, a cantu mi stesi rifirutu e no solu, dapoi tutti silla sighìsini allegri e cuntenti!

Paolo Demuru

martedì 13 febbraio 2018

La minestra di latti

Minestra di latti, Paolo Demuru, 2018

Antonagnulu s’era briatu cu lu babbu e sinn’er’andatu  a sta in viddha. S’era cuiuat’a mannu cu una femina di pocu più manna d’iddhu. Aìsi robba di fiddholi primma chi lu tempu punissia li so’ limiti. Era vulintarosu e trabaddhadori però, cumbinazioni si desi, ch’andes’a sta accult’a un ciddheri e dugna sera lu fraquintàa. Gjucàa ‘ calti, s’imbinzinàa e ni riccuìa cu lu ‘inu malu e facìa chistioni cun muddher’e fiddholi... era divintatu una palcossa. La muddheri no sapìa undi punissi lu capu pal cilcà di strassillu palchì proppiu no vidìa comu tirà a innanzi. Comu riccuìa pricuntàa di cosa v’aìa pal cena e mandàa lu mascittu a la palma di la ghindata pal fass’arricà l’ambula di lu ‘inu, biancu o nieddhu, a sigunda di lu magnu e dapoi, come chi no bastessia, andàa iddhu a la  bruttèa e si scumpìa.

La muddheri disisperata arries’a lu puntu di piddhanni algumentu cu la cummari, femina saia e di sintitu, di lu malu ch’er’affruntendi: -Socu passendi li peni di lu ‘nfarru cun chist’omu, bon’e primurosu, ma di ‘inu malu chi no si po dì. Cassisìa magnu li faccia o biancu o nieddhu no li de’ mancà e dapoi si scompi unde lu bonu di Tazzoni, ‘lla ghindata. Oi, cummari mea, candu so pari campà e murì, no v’è altu d’agghjugnì...!-
-Cummà’, no v’abbattìti, no vi det’a tarra-, rispundisi la ‘icina, -la palti chi tucches’a me no villa contu tantu la sumiddha l’è affattenti, ma cilcheti stramezi o svii, siddh’ancora pudeti... o maccari... appruntetili minestra di latti... eu la scumbattesi cu lu chi no s’agatta e n’avviltisi middhori...-

Dittu fattu. Subbitu sinn’impriesi cu l’asettu di chiddhu chi ghjoca punendi fidi ill’ultimi calti. A la ‘ntrinata la cena era pronta, calda e puntuali e candu Antonagnulu riccuisi salutesi lu mascittu punendili la mani ‘n capu e accustendis’a la muddheri li disi ‘n bonumori: -Cosa c(i)’à pal cena?-
-No sapìa proppiu cos’ulminà stasera e, tantu pal cambià, agghju pruat’a fa un pocu di minestra di latti.-

-Bon’abbedhu-, disi lu maritu, -m’ammentu ‘ulinteri candu la facìa la poara mamma, saurita ‘n bucca e sana ‘lla la ‘entri... poni la banca...pon’a magnà-, e vultendis’a lu fiddholeddhu, -anda mascittu meu unde Tazzoni e l’ai a dì di datti di chissu ‘inu nieddhu ch’à illa cupa manna, però stasera poltati la fiasca e torrannilla piena, dapoi ghjà v’accost’eu...-. Lu steddhu invecci di piddhà l’ambula ch’era ‘n bassura si stiresi a spiccanni la fiasca e s’avviesi, come solitu, a la palma di la ghindata.

Paolo Demuru

martedì 30 gennaio 2018

Ma era un sogno (ma er’un sonniu)

Paolo Demuru - monumento a P. Cerchi poco prima di essere collocato a Balascia nel Museo Tematico all’Aperto
...ero tra persone conosciute e in un ambiente indefinito ma non del tutto estraneo alle mie conoscenze. Tra gli altri, mi si presentò dinanzi un volto noto che mentre tentava di sedersi su di un piano piuttosto basso, lamentando la sua incipiente artralgia, mi allungava, con la mano sinistra, un libro dentro una busta semi trasparente tanto che facevo fatica a leggerne titolo e autore. Io mi sentii commosso e allo stesso tempo debitore di un caloroso ringraziamento per il regalo ben gradito che stavo per ricevere. Mentre allungavo la mano titubante vidi chiaro il volto del gentile amico, pallido e incorniciato da capelli bianchi e con un leggero sorriso. Volevo dire qualcosa ma balbettavo dentro di me mentre osservavo altri libri in una borsa a fianco dell’amico, leggermente chino nell’atto del sedersi, senza proferire parola.

Ora credo sia giunto il momento di dire chi era costui. Era Placido Cherchi in un’atmosfera da sogno che, meditabondo come al solito, porgendomi un regalo prendeva posto a sedere di fronte a me. Non proferì parola e neanche io feci in tempo a farlo poiché tutto cominciò a svanire in fretta. Non mi dispiacque la visione perché si trattava di un amico, e neppure il gesto, perché ho sempre gradito i suoi scritti.

L’evento fugace che ho appena raccontato poteva essere successo veramente durante i vari momenti in cui sono andato a la Conciareddha a trovarlo, dove spesso abbiamo parlato del più e del meno. Ma l’incontro che ricordo con maggior interesse e trasporto è quello che risale al l ottobre 2011.

Lo avevo incontrato il giorno precedente di fronte all’ingresso della pineta e ci demmo appuntamento per il seguente.
L’indomani, verso le nove ero a Balascia. Feci un giro nella pineta, poi mi avviai a la Conciareddha e trovai Placido intento a ricollocare un’anta del cancello d’ingresso alla corte della sua casa. L’aveva trasportato dal punto in cui lo aveva riverniciato, aiutandosi con la carriola perché era piuttosto pesante.

Tra l’altro mi confidò: -Inoghe ch’at duas cosas de timere, sa frommìia e su sorighe proitte tottos duos si mandigan donzi cosa. Sa frommìia est in tott’ue e sos sorighes micch’an’ mandigadu tenamente sos filos de su motore e appo rischiadu de no mi paltire sa macchina...(Qui ci sono due cose da temere, la formica e il topo poiché tutti e due rodono ogni cosa. La formica è ovunque e i topi mi hanno rosicchiato anche i fili del motore ed ho rischiato che non mi partisse la vettura).

Ma Placido non si faceva certo scoraggiare da formiche e topi, anch’essi compagni di viaggio, come non si scoraggiava delle persone, a volte, difficili da raggiungere e da intrpellare, o poco disposti ad ascoltare. Tra l’argomentare mi parve di scoprire quanto, ormai, conosceva Balascia nelle sue forme naturali e nelle abitudini consolidate. Parlammo per un paio d’ore e toccammo vari argomenti; il sogno di questa notte trascorsa è stato breve ma intenso e capace di risvegliare sentimenti lontani e profondi, confermare o no il passato e, in qualche modo, togliere un velo al futuro. A questo punto, essere un po’ sognatore non mi dispiace alquanto.

Paolo Demuru

domenica 14 gennaio 2018

Un viagghju ‘mpruisatu




"Lu Muvroni", 9 gennaio 2018
L’alta dì par un celtu bisognu socu andatu a li palti mei, a la sola. Agghju presu l’occasioni pal fa una scappata a Balascia. Era da tempu chi vulia ‘idè lu statu di lu ’accili anticu accult’a lu Monti di la Greddhula. Era da abbeddhu arimutu e n’aìa guasi paldutu l’ammentu, tante veru chi par agattallu v’agghju deùtu pissà  no pocu. A furia di brea cu la lama e la frasca chi lu cuàa socu risciùtu e vinenni a capu.

M’à fattu piaceri videnni li muri in bona cundizioni maccari ‘lla malesa, no l’intrati senza li ghjachi e d’animali mancu lu mintou. A dugna modu tuttu facìa ammintà la so’ ita e funzioni: ricuì vacchi e viteddhi e, igniru, passoni affaccendati. Abali è a sumiddha di ‘ecchju, a l’appogghju pa lu fritu, pissend’a lu passatu e prichendi pa lu ‘inienti. Pa lu passatu no li pudemu fa più nuddha, pa lu ‘inienti ‘emu l’aminu d’agghjutallu a passàllu comu mireta un’omu riccu d’anni e di sintitu, chi à patutu e fattu, chi à prummissu e datu. Intantu, solu cu la so’ umbra di muru ‘mbarrittatu c(i)’ammenta un caminu fattu ed unu di fa: lu soiu e lu nostru...

Cun chisti pissamenti mi socu allalgatu da lu ‘accìli canutu, pienu di scopa e lama, pissendi a la so’ cundizioni di disagiu e lu ‘ntentu di punivvi manu. Ma, pal chissu ben alt’aìmini vi ‘ulìa e m’è bastatu l’aèllu ‘istu e lu bonu pruppositu soiu e meu.

Turrendi a caminu m’è vinuta la gana di fammi una scappata a lu pindiu, a lianti, a la scupalta di pelchj e conchi. Vulìa ‘mbiccà  boli di parrici e maccari un lepparu assustatu, pissendi di ‘ntanassi. Agghju nutatu la natura alliciata pa la siccagna e calche fioriceddhu fora stasgioni pal via di lu tempu ch’à paldutu la so’ cadenzia. Tra la lama chi mi trubbìa e li monti chi mi chjudìani agghju fatt’a paru cu una rocca cuncata. M’à cuntintatu la so’ biddhesa tantu chi no agghju fatt’a mancu di pultamminni un’ammentu maccari lu pindìu e la bruttesa no m’èrani di cuffoltu. Agghju stintatu ad agattalli la misura ma, poi, mi socu deùtu arrindì a lu chi agghju pudutu e sighì l’andata. Era cun mecu la so magghjna d’animalu. anticu più di l’omu, fissatu ‘llu granittu pa no scumparì mai. Chissa ’isura indumata da li seculi s’era ammaestrata a li me’ disici tena stammi ‘lla busciàccara, cagliat’e chietta.


Li cimi di l’alburi non mi facìani ‘idè chjaru undi m’agattàa. Mi sarìa paldutu? Ma candu mai! Lu soli, a scampu da una neula a l’alta mi dicìa di punillu ‘n fattu... La bureddha e l’alcummissa mi lassani lu nuscu ‘lli calzoni come a lu Tinori Birraldinu candu ‘n tali custeri andàa ‘n caccia. Eu però no aìa né fusili e né caltucci e né mancu signali di fera appiccata a la cintula di peddhi. Pultàa solu un apparicchjeddhu a folma di tabacchera chi, senza fà cioccu e né fumu, pò solu adducà ammenti, sciutà passioni, fa cumpagnìa muta e sana. In chissu me’ andà aìa sminticatu par una frìa tribbulìi ed inganni di l’omu e di lu tempu. Era in paci cun tutti e tutti m’erani in paci, tuttu mi dagghjìa faori e cuffoltu però da fora lu soli ni signàa lu mezudì e da drentu chjaru sintori di fami m’avviltìa ch’era ora di turrà a l’usuali.


Contravvenendi a chisti naturali cumandamenti socu accustatu a la punta di lu Muvroni e agghju ghindatu l’occhj a Ghjucantinu e gudendimi la costa di Limbara agghju sigutu vessu lu mezudì, tra li bandi di lu Riìgghjolu. M’è vinutu dananzi l’Uttareddhu, Carragghju e la Turrina e lu canali, proppiu lu Canali, tenament’a lu Laccheddhu. Candu la luccicura di lu lagu m’à aggghjummai abbagliatu la ‘ista agghj’abbassatu lu capu e vultatu li me’ passi pal turrà a lu settili; pal piddhà un mossu e avviamm’a lu cumandu chi no pudìa mancà.

Paolo Demuru