domenica 6 novembre 2016

Idea Balascia

Scultura in arenaria, Paolo Demuru, 2016

Il diciannove ottobre nella pineta di Balascia sono stati collocati i nove monumenti mancanti al completamento del Museo Tematico all’Aperto. Tra gli undici monumenti quello a cui vogliamo dare maggiore rilievo è il simulacro collocato in una nicchia naturale. Un granito tafonato dalla forma suggestiva, ritenuto da noi adatto a ricevere la Santa dei santi: la Vergine.

La statua è stata scolpita su un blocco di arenaria color ocra acquisito il 15 gennaio 2016, mentre il lavoro di scultura è iniziato cinque giorni dopo. L’opera finita raggiunge l’altezza di 70 cm e circa 70 chilogrammi di peso. La statua è stata benedetta con il nome di Nostra Signora di Balascia, dal sacerdote don Paolo Sanna, parroco in Assemini, la mattinata del 6 agosto e collocata nella nicchia naturale il 24 successivo. Il sito può essere raggiunto in vettura ma l’ultimo tratto che conduce all’eremo che circonda la nicchia deve essere assolutamente percorso a piedi  attraverso un sentiero che si snoda tra la vegetazione per una quarantina di metri. Il bosco circostante non impedisce del tutto lo sguardo  dal vagare verso un orizzonte piuttosto profondo: il lago Coghinas ed oltre la piana di Chilivani, mentre Ozieri ci appare appena alla pendice delle sue alture.

La vegetazione è composta da erici, lecci, pini, perastri, lavanda ed elicriso dal profumo inconfondibile. Vi crescono le viole e i ciclamini e diverse varietà di funghi, tra i mangerecci e quelli sconsigliati. Vi cresce pure l’asfodelo, per la gioia di qualche ape vagante e per farsi apprezzare nella sua semplice bellezza. Vi cresce l’edera selvatica che fino a pochi mesi alloggiava perfino all’interno della nicchia. Ora è potata e a breve mostrerà il suo manto rinnovato nella forma e nel colore.

Nostra Signora di Balascia stringe con la sinistra un mazzo di fiori mentre adagia la mano destra sul petto; ha capelli lunghi, quasi un mantello a coprire parte delle spalle e indossa un vestito lungo appena mosso dalla brezza. Alla sua destra parte di un arbusto non impedisce l’incipiente crescita di un alberello, mentre la solennità della grotta e l’ambiente che circonda fa tutto il resto. La posizione è tale che il sole solo sorgente lambisce il Simulacro in tutte le stagioni,  mentre la pioggia può raggiungerlo solo se spinta dal vento.  San Francesco dall’ingresso accompagna instancabilmente il pellegrinaggio dei monumenti verso la grotta e anche il nostro  tutte le volte che decidiamo di farne uno.


Paolo Demuru

domenica 11 settembre 2016

Un sogno che è stato realtà (un sonniu ch’è statu ‘iritai)


"Lu focu di Balascia", acquerello, Paolo Demuru 2016



Si, è vero, questa notte ho avuto qualcosa che, da bambino, avrei chiamato incubo ma non essendolo più per ragioni anagrafiche, lo chiamerò sogno o reminescenza dell’inconscio. Mi pareva di percorrere la strada che da Tempio porta al passo del Limbara; ero in una vettura strana, senza cappotta, che guidavo sì e no tra l’ombra dei pini e violenti spiragli di sole penetranti tra di essi. 

Un odore acre di bruciato sempre più intenso colpiva i miei sensi e quando arrivai al Passo, un attimo prima di svoltare per Balascia una nuvola scura mi impegnava parte dell’orizzonte. Intanto una radio che sentivo involontariamente aggiornava sulle ultime notizie riguardo il terremoto. Continuavo a salire verso quel potente pennacchio di fumo che, scuro e minaccioso, si innalzava di fronte a me.

Il sole andava sempre più adagiandosi sull’orizzonte sanguigno e triste quando sul pianoro cominciai a notare siepi fumanti e subito solo carboni e cenere e scheletri anneriti. Il silenzio era rotto dal rumore cupo dei mezzi aerei che tentavano di lanciare acqua sul fronte del fuoco che scendeva ormai un canalone verso Est, e da un flebile grido disumano proveniente forse dagli animali arsi vivi, dagli alberi inceneriti, o anche da me stesso, impietrito da tanto sfacelo. La notte sopraggiunse quasi all’istante.

Quella macchina che per un buon tratto mi aveva accompagnato non c’era più. Ero solo  in un deserto che diveniva sempre più cupo e desolante. Fiammelle accese nei tronchi erano sempre più evidenti nel venire meno la luce del giorno. Ricordo di essermi trovato sulla via per Tempio, presso lu Naracheddhu (i ruderi del nuraghe Roccu) a pensare a quanto ossigeno bruciato, a quante piante che ne producevano certa quantità carbonizzate, a quanta cenere e calore inutile prodotto; mi veniva da pensare alle sorgenti che si sarebbero prosciugate, a quanta pioggia in meno avremo dovuto avere, all’avanzata impetuosa del deserto, a quel paesaggio che non avrei più rivisto. La natura aveva elargito un paradiso e l’uomo ne aveva fatto un pauroso inferno.

Verso Nord, dove volgevo lo sguardo, il cielo era sgombro e vedevo arrivare verso me delle stelle cadenti, veloci e luminose che giungevano a lambire la terra. Erano tante, erano numerose. Erano anch’esse brace e faville ed erano forse il residuo di un disfacimento planetario, ma esse non portavano né danno né dolo. 

Erano gli ultimi segnali di un ordine o di un riequilibrio dell’universo o manifestazione del suo respiro, del suo essere che, sotto forma di luce, giungeva fino a me, quasi a consolare il mio stato. I lumi sui ceppi alle mie spalle erano i segni tangibili delle debolezze o delle avidità umane che abbassano l’uomo a ricorrere ad odio, invidia o ai trenta denari…

…E se n’è andato anche agosto
in fumo, in fiamme, in tremor’e crolli;
mute campane, neri piani e colli,
deserto e macerie ed alto il costo.
Pochi per goder, troppi per patire
tra ‘l mare caldo e la tant’arsura
e qualche tuono che non porta paura,
poco udito ne l’aer pomeridiano.

Guardano le stelle, se ne precipitano
anch’esse in gran lume, in gran stuolo;
vengon da lontano, toccano ‘l suolo
dicendoci, tra fuoco e calcinacci:

che, c’entra l’uomo? veniamo anche noi,
del cel fumo e schianto, a lagrimar con voi.

Mi svegliai d’improvviso e mentre mi veniva in mente questo sonetto ripresi sonno poiché, in realtà, non ero presso lu Naracheddhu ma bensì nel mio letto a cercare una posizione più adatta alla mia schiena, divenuta un po’ delicata.


Paolo Demuru

lunedì 22 agosto 2016

Il portalettere (lu di li littari)




Volevo iniziare quest’argomento con la classica dicitura “C’era una volta…” ma mi accorgo subito che non va bene e correggo: “Non c’era una volta…” ma neanche questa espressione mi convince, soprattutto perché così non è mai stato; infatti “non c’è mai stato…” (giusto) nelle nostre contrade un portalettere (lu di li littari). 

Eppure le lettere nelle nostre case giungevano e da esse partivano per destinazioni vicine e lontane. Hanno tenuto i contatti con gli emigrati in America nei primi del novecento, con i trincerati della prima guerra mondiale nelle aree del Piave, con i fronti d’Europa, di Russia e d’Africa durante la seconda guerra mondiale

In tempi ormai nostrani si sono scambiate notizie  a mezzo lettera i familiari con i soldati, spesso destinati a caserme del nord Italia, Cuneo, Belluno, Gorizia, e con gli emigrati in Corsica, Nord Italia e Nord Europa.

Penso agli analfabeti, specialmente donne che dovevano rivolersi a qualche semi alfabeta per far scrivere missive per il proprio figlio, per il fidanzato, per il marito e, quando giungeva, farsi leggere la risposta…! Solo un rapporto di particolare fiducia e onestà tra le parti poteva far sì che si svolgesse un compito così delicato. 

Penso a quanto cerimonioso fosse scegliere, durante la giornata, un momento per trovare un foglio, inchiostro e penna e dedicarsi a scrivere, mettersi in contatto con una persona lontana. Comunicare notizie, confidare emozioni, esporre premure, concludere con convenevoli sia tramite lo scrivere che con il ricevere, anche solo ricevere una cartolina con una bella immagine di uno scorcio lontano e un sintetico … “Saluti da…” e il nome dello scrivente. 

Ben altra emozione era ricevere una lettera contenente una foto dal marito in Belgio, oppure quella di un giovane che riceve la foto da una donna conosciuta in una fugace occasione...

La lettera era un braccio teso oltre il mare, un pensiero che annullava le distanze, un sentimento che si affidava ad un foglio che si materializzava mentre si leggeva. Poteva essere una conferma di forte unione o  dichiarazione di un desolante addio però sempre rivestiva solennità e profonda identità, olografa o dettata che fosse. 

Oggi affidiamo le comunicazioni alle email e le immagini a Facebook conquistando un'immediatezza quasi priva di emozioni. 

L’omu di li littari, scomparso dietro le innovazioni non è più tra i pochi ricordi di decenni or sono. Nei centri abitati il portalettere è annunciato dal rumore molesto e distinto di un motorino inforcato da un giovane in pettorina gialla che in tutta fretta deposita nella buca delle lettere avvisi  di pagamento al posto di saluti, auguri ed affetti. Il giovane in motorino assordante è un innominato, l’utente un numero civico. 

Quel signore di mezza età che passava e ripassava pazientemente per consegnare la lettera al giusto intestatario, che conosceva le famiglie una per una, che salutava e scambiava qualche battuta può essere soltanto un sogno per chi ancora ne conserva facoltà.


Paolo Demuru

mercoledì 10 agosto 2016

Notti d'agosto



Paolo Demuru  "Notti d'austu", gessetto su cartoncino, 2016


Anche in queste contrade i nostri antenati, quelli che veramente erano dediti al lavoro, nel mese d’agosto godevano giorni di meritato riposo. La raccolta del grano (la ‘ncugna) era finita, il bestiame  veniva poco accudito e il solleone d’agosto evitato, o trasferendosi in aree più fresche, vicino a sorgenti o sotto i tetti delle case, dai muri spessi.

Per loro le ore di riposo erano sovente quelle del tramonto o dopo cena, quando erano soliti sedersi all’esterno delle case, presso l’uscio. Potevano partecipare più famiglie se il villaggio era composto da diverse anime, o un solo nucleo se si trattava di case singole.

Non si distraevano con il telefonino e tanto meno impazzivano dietro i Pokemon ma argomenti da trattare ne avevano talmente tanti che spaziavano dalle fiabe (li voli) ai pettegolezzi (contarelli o narelli), dalle critiche sentite, inventate o fondate che fossero, alle semplici scommesse. Osservare più stelle cadenti (stelli mutendi) degli altri poteva essere motivo di orgoglio, prima che si levasse la luna e con il suo chiarore nascondere l’incanto, mentre i più piccoli erano colpiti deal richiamo delle volpi o dal canto della civetta o dal volo improvviso di qualche rapace notturno bianco o grigio che fosse, o ancora dal passaggio scombinato dei pipistrelli (passoritolti) nelle loro esibizioni di caccia.

Ma in tutta questa assenza di rumori procurati, inventati, esagerati, il responso della natura si faceva apprezzare nella sua grande serenità e soprattutto si faceva avvolgere dalla luce della luna, dal suo sorgere dietro il monte fino a quando si apprestava a scomparire dietro le tegole del tetto alle spalle.

A dar motivo di vaghe discussioni era spesso proprio la luna con la sua forma, il suo candore, il suo volto di donna: vecchia o attempata che apparisse, giovane amante o matura intrigante, donatrice d’amore o rubacuori, il suo  accennato sorriso non era mai privo di un certo mistero. I bambini, i giovani, gli adulti, nessuno poteva dirsi escluso da un attimo di stupore di fronte quell’astro muto e brillante che accompagnava in modo lieve la dolce veglia dopo il solleone o precedeva il sonno beato e ristoratore di tante fatiche.

Quando penso a quanti figlioli ha fatto innamorare, a quanti poeti ha indotto a scrivere, a quanti tenori l’hanno cantata, a quanti bimbi l’hanno sognata quasi mi commuovo e un senso di rispetto e gelosia nei suoi confronti mi pervade. Perché siamo andati fin lassù a posare sopra le sue immobili polveri i nostri rozzi scarponi? Volevamo forse più da vicino cogliere i suoi misteri, il suo sorriso, la sua serenità o il suo fascino? Potevamo benissimo e con meno spese continuarlo a fare dalla nostra terra nei meriggio d’agosto, subito dopo cena; potevamo farlo, dico, ma ci siamo trovati nella sorpresa di inciampare dietro un Pokemon mentre la bella luna, sempre senz’aggiungersi una ruga se non quella lasciatagli dall’astronauta, ci sfugge sorridente ormai tra i nuovi tetti. 



Cantami o luna vestita d’argento

del tuo lento ed immutato vagare,

cantami ‘l giusto, non tristo spoliare

che dalla terra ti giunge riflesso,

non privarmi d’un tepido amplesso

finché ti guardo ‘l riso da quaggiù.

Stattene, fin che puoi, sola lassù

evitando le orme degli arditi;



ti pianteranno grane e ferraglie,

ti turberanno la serena pace

e tutto quello che in te scorre e tace,

come sono soliti fare in terra:



in esecranda guerra e ‘n tristo pianto,

là non alberga  naturale incanto.



Paolo Demuru



martedì 26 luglio 2016

Va, pensiero (Anda, pissamentu)



"Anda, Pissamentu", acquerello su carta, Paolo Demuru, 2016


Ieri  sera, dopo cena, non avevo voglia di leggere e neppure di scrivere e mi sono dedicato ad ascoltare musica; ho divagato dalle canzonette fino alla musica classica. Ho riascoltato dal Nabucco quel bel coro del 1842, “Va, pensiero”… un canto di esuli di tanto tempo fa. 

Il testo supera di poco il secolo e mezzo, i fatti che lo hanno ispirato, invece, si sono rinnovati, da tempo immemorabile, continuamente fino a noi, un po’ esuli, un po’ oppressi, un po’ sconfitti. Come il poeta Solera potrei anch’io, in un momento di raccoglimento nel versante dei ricordi invitare, se non altro, il mio pensiero, a vagare, o meglio, a posarsi sulle colline dove profumate spirano le brezze libere e leggere del luogo natio. 

Potrei invitarlo anche a salutare i siti a me più cari, di cui conservo maggiormente immutato ricordo, o quelle realtà che mi sono state vicine e ormai sottratte o scomparse: non potrei fare a meno di accorgermi, in tal caso, quanto ho perso per quel che ho guadagnato e le rimembranze che emergono nel mio petto non sono altro che il racconto del passato. Trarrei dalle tragedie solo dolore se non mi venisse incontro una tal forza a dare senso alle mie fatiche, al mio disagio interiore. 


Meditando su quel canto ottocentesco mi sono chiesto come avrebbe suonato se lo avessi voluto tradurre nella mia lingua d’origine, in Gallurese (in Cossu)…



Anda pissamentu subbr’ali ‘nduriati

e and’e posati in settil’e coddhi,

in undi cantani libar’e moddhi

li frini dulci di lu locu natiu.



Di lu riu li so’ ribbi saluta,

di li so’ licci li trunchi caduti;

oh me’ tarra si beddha ë palduta,

oh l’ammentu si caru ë fatali.



E sonu beddhu di l’antichi fati

palchì mutu da l’alburu pendi;

li mimorii ‘llu pettu n’accendi

e ci mintoi d’un tempu passatu.



O solu da l’usciati ghjà fatti

ni trai sonu di crudu lamentu,

o ti spiri lu Signori unu ‘ntentu

chi n’infundia ‘llu patini viltuti.



Chissà se qualche futuro Verdi  intingerà mai spartiti per le mie quartine e mai orchestre strapperanno lunghi applausi in teatri affollati… ma che importa. 

Gli applausi sono pur sempre il fragore, il suono di mani che manifestano il giusto plauso a un’opera ben riuscita, la musica il suono degli strumenti accordati a modo per vestire d’incanto talora versi struggenti, la poesia resta comunque la musica del cuore, la danza della verità, la voce dello spirito.



Paolo Demuru

martedì 19 luglio 2016

La trota del fiume (la trota di lu Rìigghjolu)




La trota del fiume, colori a cera su cartoncino, Paolo Demuru, 2016

Osservando dai punti panoramici che s’incontrano sul versante est e sud della nostra area, scorgiamo in buona parte la vallata, scavata durante la sua lunga vita da lu Rìigghjolu (fiumiciattolo). 

Esso ha sorgente presso il Passo del Limbara proprio sulla strada provinciale Oschiri-Tempio, da dove, seguendo il pendio più o meno accentuato che comunque degrada man mano che si avvicina al lago (Coghinas) dove sfocia, il torrentello ha dato motivo all’insediamento dei miei antenati già da oltre due secoli e mezzo, ed ad altre famiglie che vi si sono aggiunte alla fine dell’ottocento. 

Ha donato generosamente le sue acque limpide che faceva scorrere tra due filari di ontani per dissetare, innaffiare, lavare, quando la calura estiva imponeva i suoi rigori. 

Nei periodi di forti piogge ha mostrato tutta la sua irruenza nelle acque torbide e talora tanto impetuose da scoraggiare ogni tentativo di guado o d’attraversamento, poiché non disdegnava appropriarsi dei modesti ponti in legno predisposti  per necessario disimpegno. 

È stato provvidenziale nel suo dare ma per questo, tra gli uomini, non sono mancate rivalità e motivi di scontro, ma ha fatto anche girare macine di mulini per oltre mezzo secolo e ha favorito il rinnovamento di parecchie generazioni. 

Ha accolto le fatiche di tante massaie e le aspettative di quanti vi hanno coltivato orti e piante lungo il suo breve corso. 

Lu Rìighjolu era prodigo non solo per quanto ho semplicemente riferito ma anche per un’altra dote millenaria, fino a quando non ne è stato spogliato, suo e nostro malgrado. Nelle sue acque, fresche d’estate perché all’ombra degli ontani e altrettanto tiepide d’inverno per le stesse ragioni, vi guizzavano trote e anguille

Ricordo quando osservavo le trote, a volte solitarie e a volte in branco, pascolare lente e tranquille nell’orlo delle piscine ma pronte a scomparire sotto i graniti o tra i limi verdi che ricoprivano parte del letto. 

Grandi e piccole, sempre maculate di nero e di rosso, potevano essere pescate a mano, se abili, con ami provvisti di adeguata esca o sparando una pallottola di fucile vicino alla testa. In questo caso lo spostamento dell’acqua tramortiva il pesce che facilmente poteva essere raccolto quando la corrente stessa lo trascinava a portata di mano. 

Per le anguille (l’anghiddhi) bisognava essere ancora più abili e fare uso di fiocine (li fruscini) ben provviste di fendenti acuminati. Poteva farsi ricorso all’uso di nasse (sorta di imbuti  costruiti con giunchi o vimini) collocate nelle strettoie e nei punti dove l’acqua acquistava maggior velocità.

Negli anni cinquanta, per un prelievo sempre più insensato che non teneva più conto del fabbisogno reale ma del vago apparire,  della scommessa o del confronto e l’uso di particolari marchingegni di cattura (corrente elettrica, o sostanze aggressive come lue o calce), le trote sono andate scomparendo

I mezzi usati, oltre a facilitare la cattura del pesce grosso, distruggevano gli avannotti (li ciarretti) e, non ultimo, le prede, per cui neanche l’impianto costruito sul Limbara per allevare uova ed avannotti da immettere nel fiume vi ha portato rimedio e le trote sono scomparse da lu Rìigghjolu.

Perfino le sue portate d’acqua sono diminuite e in certi periodi dell’anno quasi non scorre più. Avvicinandosi alle sue rive spesso non si ode più il suo rumorio ritmico e armonioso che invitava, tanti anni fa anche la mia gattina esperta di pesca. Tante volte l’abbiamo sentita miagolare, presso l’uscio e, affacciandoci, l’abbiamo vista ancora bagnata in parte e con in bocca insolita preda: una trota, appena pescata.

Il torrentello aveva un legame di affetto con molti valligiani e questi ultimi con esso: avvicinarsi al fiume era quasi un rito e perfino Bernardo De Muro, (Birraldinu, lu Tinori il cui padre era nato presso le sue rive) durante le sue permanenze tra i parenti, non perdeva l’occasione di dedicare un pomeriggio a cercare di pescare trote nelle sue acque.

Questo ed altro è stato lu Rìigghjolu finché gli uomini hanno manifestato buon senso e fatto ragionevole uso  dei doni insostituibili che Madre Natura ha gratuitamente offerto sul suo provvido piatto d’argento.

Paolo Demuru

martedì 12 luglio 2016

La trebbiatrice



La trebbiatura, gessetto, Paolo Demuru, 2016

Ricordo come in un sogno, come in un dipinto dai colori tenui e dal contorno sfumato, il mio primo approccio con la trebbiatrice. Era probabilmente una mattina di luglio, assolata e ben tiepida come tante, ma ciò che andavo a vedere mi entusiasmava e mi incuteva soggezione allo stesso tempo.

Quando arrivai nei pressi dell’antica aia cominciai a vedere una macchina su quattro ruote, nera, che sembrava in procinto di sudare olio dalle sue parti metalliche, e ne sentii subito l’odore nauseante e insolito. A un lato una puleggia e una cinghia che vi partiva per collegarsi ad un'altra macchina, anch’essa montata su quattro ruote ma questa era fasciata in legno e di colore rosso. Ai suoi lati vi erano pulegge e cinghie e attorno uomini intenti a mettere a livello, a sistemare cunei alle ruote, a controllare la tensione delle cinghie e soprattutto quella più grande e incrociata che collegava le due macchine. 

Quando avviarono il motore (prima macchina), un rumore quasi assordante accompagnò una nuvola di fumo denso sprigionarsi da un tubo verso l’alto e una vibrazione, che sembrava trasmettersi ad ogni dove. La cinghia incrociata prese a muoversi e quel movimento si trasmise immediatamente alle altre ai lati della rossa trebbiatrice. Un operatore con il fazzoletto al collo e il capo coperto salì la scala fin sopra e vi prese posto. Altri dalla stessa scala portavano su i covoni (li manneddhi).  

L’operazione di separazione del grano dalle spighe aveva inizio in una nuvola di polvere che piano piano invadeva la piccola area circostante, finché una tenue brezza non le indicava una direzione preferenziale. Al lato della trebbiatrice un operatore si apprestava a sistemare il sacco che lentamente andava riempiendosi di chicchi dorati mentre altri s’impegnavano  a spostare la paglia che dall’ultimo vaglio veniva scaricata meccanicamente. Altri controllavano attentamente passando e ripassando sotto quella cinghia incrociata, chinando il capo e abbassando le spalle per prudenza. 

Anch’io passai sotto quella particolare cinghia, anch’io chinai il capo e abbastanza le spalle, forse fino a mettere parte della schiena in posizione orizzontale. Allontanatomi alquanto pensai di raddrizzarmi ma con sorpresa vidi alcuni ben più adulti di me che mi guardavano sorridenti. Capii subito che sarei potuto passare tranquillamente in posizione eretta, volsi lo sguardo altrove e continuai verso un punto dove la polvere era meno vistosa e il rumore meno assordante per meglio osservare l’insieme dove il tutto mi apparve più normale. 

Già mi sembrava che la stessa operazione a mano e con l’uso di animali, svoltasi per millenni (l’agliola), appartesse al passato. Ero di fronte al presente, anzi al futuro, e non pensavo minimamente che sarebbe bastato poco più di qualche decennio per cancellare questo stesso futuro dalle nostre terre per sempre. 


Ho rivelato solo in parte le sensazioni di quell’ormai lontano mattino di luglio, vissuto da bambino e ricordato da adulto; la parte che non ho citato la lascio volentieri immaginare a chi avrà avuto la pazienza d’aver letto queste poche righe, immedesimandosi in un bambino che non è più...o forse no.



Paolo Demuru

domenica 3 luglio 2016

I graniti di Balascia



Balascia, granito tafonato presso Lu Monti di la Greddhula


Le manifestazioni granitiche che emergono a Balascia e, specificatamente,  in quest’area non sono da meno di quelle che sfidano i nostri sensi in qualunque altra parte del mondo, dove compaiono pareti appartenenti al loro originale corrugamento.

Sono di epoca erciniana e perciò vanterebbero un’età che si aggira sui 250 milioni di anni, come le stesse della vicina Corsica  occidentale. 

Forse l’età e le vicende orogenetiche hanno influito tanto nelle loro forme ardite e suggestive. Esse ci raccontano di un passato alquanto lungo prima della comparsa dell’uomo che, pur con ingegno, difficilmente riesce ad immaginare, malgrado affermi che rappresentano un po’ l’origine del pavimento che calpestiamo. Le forme che ammiriamo oggi sono sommi testimoni di tutta la storia umana ed oltre; modellati dal tempo e dalle intemperie del caldo e del gelo ci appaiono all’improvviso nelle figure più sorprendenti. 

Ci mostrano la loro veneranda età nei tafoni, nelle filature provocate dai fulmini, nel crollo che ne è frutto e artefice del loro lento ma inesorabile disfacimento. 

Ci appaiono come esseri in perenne agonia coperti di muschi o edera selvatica e colmi di memoria, dove le orme del passato si sono indelebilmente impresse per giungere fino a noi. 

Il vento impetuoso tra i suoi picchi piange le tragedie dei viventi come ne canta e ne esalta le sue virtù quando, lasciato ogni impeto, ripiega in geniale e amorevole  brezza. 


I nostri antenati li hanno sempre osservati con rispetto ponendoli come riferimento nello svolgere quotidiano: crocevia di sentieri, confini di proprietà,  toponimi, punti d’osservazione (spiriatogghj), orologi dell’alba e del tramonto, di mesi e stagioni. Vi si sono riparati dal sole, dai venti e dalle grandinate improvvise per millenni uomini ed armenti. 

Presso le loro basi vi crescono lecci millenari perché ne attingono l’acqua dalle loro riserve povere ma perenni. 

Sulle loro cime vi nidificato uccelli di grosso calibro (aquile, grifoni), vi sono saliti banditi per scrutare l’orizzonte, vi sono salite capre per godere la brezza nelle ore più calde o per fuggire, spesso inutilmente, l’impeto distruttore del fuoco, quando l’uomo non ha trovato altro sistema per sfogare invidia, odio o rancore.



Paolo Demuru

lunedì 27 giugno 2016

Un sogno insolito



Paolo Demuru, "Dante e Beatrice", acquerello, 2016



L’altra notte per me è stata piena di sogni… eh sì, i sogni spesso sono curiosi perché si configurano in auspici o in ricordi nostalgici oppure sconfinano nella sfera dell’impossibile. 

Ero in un luogo a me familiare, che però non so proprio precisare, e vidi giungere un uomo sulla cinquantina con passo sicuro e cadenzato; coperto da una vestaglia lunga che gli dava un aspetto dignitoso e quasi regale. Lo sguardo era meditabondo, l’occhio vivo e penetrante, la fronte avvolta in un telo colorato e al braccio sinistro tre libri

Era accompagnato da una donna elegante e sinuosa, leggera e gentile, coperta d’un velo bianco e un abito rosso sotto un mantello verde, parlava a voce bassa e con il sorriso. 

L’uomo dal saggio aspetto, parlava poco ma asseriva assai, concedeva più tempo all’ascolto che alla parola…


Come li vidi avvicinare feci un passo indietro ma l’uomo al quale pareva che nulla sfuggisse, arrivato di fianco a me voltò lo sguardo e con voce sensuale e avvolgente mi disse in buon fiorentino:


-Ovvia!, visto che tu t’hai tradotto ’n gallurese la mi’ Comedìa mettine qualche terzina nel tu’ blog, non si sa mai ch’altri se ne ‘nnamori, visto che nelle scole m’han quasi dimenticato; oh quanto mi garba star un po’ tra la tu’ gente, o per meglio dir su la tu’ collina, tra gli amici che tu hai testé celebrato…-


Mentre mi apprestavo timidamente a rispondere la saggia figura, proferite affettuosamente queste parole, sparì e così anche quella  dell’avvenente compagna. 

Rimasi solo a meditare in un bel viale tra grossi alberi dove una flebile brezza componeva tra le cime più alte dei pini un lontano concerto di violini mentre ai lati della pista, tra erici, lecci, lavanda ed elicriso, vedevo svincolarsi da blocchi di basalto grigio volti che  mi apparivano già visti. Però sorpreso mi chiesi: come? Blocchi di basalto tra i graniti? 

Ebbi un sussulto e quasi mi svegliai. Nel sonno residuo riuscii a ricordare quel saggio e quella bella dama, di lui ben più giovane che l’accompagnava e conclusi: ma questi forse in qualche occasione li ho conosciuti e, dovrei assecondare…



22  Eu ghjà vidis’a lu dí cumincendi

 la palti d’orienti tutta ruiata,

e ill’alti palti sirenu lucendi;



25  e cara di soli pa alzann’umbrata,

cussì ben’attemparata da umori

e da l’occhj umanu suppultata:



28  cussì ‘ndrent’a chissa neula di fiori

chi da man’agnelichi alzà ni duìa

falendi ‘ndrent’e fora mori mori,



31  subbra ‘ candidu telu cinta d’ulia

femina parisi, suttu ‘eldi mantu

tutta ‘istuta ‘llu culori di fiama ‘ia.     

         

(Purgatorio,  canto XXX vv. 22-33)



Paolo Demuru

venerdì 24 giugno 2016

La frutta di stagione (criasgia e fichi d’agliola)




Paolo Demuru, La raccolta delle ciliegie, acquerello, 2016
  
Quand’ero fanciullo le botteghe e il mercato nei paesi non si riempivano di frutta di ogni specie quasi tutto l’anno. La presenza di frutta era relativa e aveva carattere locale e stagionale.
Dopo qualche mandarino per Pasqua attendevo con ansia le prime ciliegie (la criasgia).

Con l’arrivo delle giornate soleggiate e  lunghe andavo a vedere tutti i giorni l’albero del ciliegio; ne osservavo i frutti  piccoli, verdi e duri e appena li vedevo ingrossare e cambiare colore facevo immaginaria conta dei giorni restanti all’assaggio sul campo.

Osservavo i rami divenire sempre più pesanti, sempre più bassi e a portata di mano mentre il frutto virava dal giallo al rosso chiaro e infine a quel rosso scuro tipico della  giusta maturazione, via spianata a quell’attesa prova. I primi assaggi non prevedevano lo scarto dei semi e mi chiedo ancora se mai avessero agito da pulitori del mio docile intestino o avessero arrecato altro beneficio, poiché di fatto non ricordo nessun effetto negativo.

In queste contrade galluresi, la ciliegia era il primo frutto di stagione, gustoso e colorato che si poteva cogliere direttamente dall’albero, a testimoniare l’aumento di quel tepore che concludeva la primavera.

La maturazione delle ciliegie era un evento sociale.  Anche la maestra del villaggio si faceva trasportare dall’idea di accompagnare i bambini a farne una abbondante scorpacciata in qualche albero vicino. 

Tutti ne beneficiavano, nessuno escluso; chi non possedeva alberi spesso ne riceveva almeno un cestino pieno in dono dal vicino, dal compare o dall’amico. Dai paesi s’incamminavano frotte di donne, all’occasione sorprendentemente  gentili e riverenti, verso le campagne ricche di alberi carichi di frutti porporini, per farsene larga provvista.

Altri frutti che, dopo breve intervallo, si presentavano nella loro prodigiosità erano i fichi a giugno (fichi d’agliola o di santu Ghjuanni), attesi e graditi; questi erano capaci di addolcire il palato e l’appetito, verdi o neri che fossero, ma la priorità, la sorpresa era sempre riservata alle ciliegie, forse più umili, ma cariche di tanta leggiadria.

Paolo Demuru