lunedì 30 maggio 2016

Il carro a buoi (lu carrul’a boi)




Tornando indietro nel tempo queste aree della Gallura si presentano con una vegetazione piuttosto bassa rispetto alla pendice est, e soprattutto  al versante occidentale, ove ancora mostrano un certo manto. Aree esposte ai venti, poco praticate, se non saltuariamente. 

Le prime famiglie si erano stabilite a valle, lungo il corso del torrente, al riparo dai venti e dal freddo. Ma le vie di comunicazione restavano piuttosto limitate e percorribili solo da persone, i viottoli (li semiti). I trasporti avvenivano a dorso di asini o cavalli attraverso mulattiere (li camini). Una svolta, per quanto attiene alla viabilità e trasporti, si ebbe nel corso dell’ottocento a seguito del taglio delle foreste e il trasporto del carbone. Ampie vallate coperte da millenaria vegetazione vennero rase al suolo. 

Il legname da abili boscaioli toscani carbonizzato e trasportato verso i porti d’imbarco. Furono aperte vere e proprie strade carreggiabili (camini di carrulu), con muri di sostegno per chilometri e come mezzo di trasporto si fece, appunto, largo uso del carro trainato da buoi. Tale mezzo, aveva tutte le caratteristiche per affrontare quelle strade alquanto comode ma a tratti anche scoscesi.

Il carro a buoi ebbe forte impiego per ben oltre cento anni. Nella sua struttura in quercia si presentava pesante e compatto e adatto all’impiego in queste aree. Era trainato da un giogo di buoi di statura medio piccola, agili e potenti che, abilmente istruiti e ben guidati davano un servizio economico non di poco conto. 

La parte più delicata del carro erano le ruote (dal diametro di 1 metro) che dovevano essere costruite (possibilmente in legno d’olivastro) da esperti falegnami e circoscritte da adeguato cerchio in ferro (largo 5 centimetri e spesso 2). 

I buoi dovevano essere sottoposti ad un paziente periodo di addestramento per sopportare il giogo e il fatto di sapersi divedere lo sforzo del traino ed a riconoscere la difficoltà del percorso interpretando l’incitamento dell’uomo, quando necessario.

Il buon rapporto tra l’animale e l’uomo era determinante per la resa del lavoro, che era raggiunta attraverso il rispetto e la cura soprattutto dell’animale e del mezzo

La quantità trasportata dipendeva dall’asperità del terreno. In tratti mediamente pianeggianti  poteva essere trasportato peso un  pari a sette quintali, a un passo medio di 4 o 5 chilometri all’ora. Il carro era composto dalla struttura o scala dalle pareti amovibili (li ghjacareddhi) che potevano essere sostituiti da un cassone (la tumbarella) a seconda del materiale da trasportare. 

In caso di forte pendenza veniva azionato il freno che con una sorta di leva agiva di rallento direttamente sulle ruote. La sua andatura era lenta e cadenzata dal passo dei buoi; il rumore prodotto quasi musicale spesso era accompagnato dal canto dell’operatore (lu carrulanti) che lo seguiva di frequente a piedi dall’alba al tramonto.

Paolo Demuru


mercoledì 25 maggio 2016

La quercia di Balascia




Fra gli alberi  più frequenti in quest’area troviamo il quercus ilex, o quercia. Può raggiungere altezza e mole notevole. Dalla crescita lenta, longevo e sempreverde, esso è l’albero che esprime maggiore fierezza, alla pari delle manifestazioni granitiche, che spesso orna e accompagna traendone riparo dai venti e acqua per le sue radici penetranti. 

Il suo legno duro e pesante è un ottimo combustibile da caminetto e la sua chioma fresca e rigogliosa ha sempre riparato da intemperie uomini  ed  armenti. Produce ghiande, ottimo alimento per suini ed ovini. Dà ottimo carbone per cui tra l’ottocento e il novecento ne è stata spogliata la Sardegna

Presenta contenuti di tannino elevati tanto da reagire col ferro che le viene a contatto assumendo particolare colorazione. 

Per la sua monumentalità  e caratteristica spesso era punto di riferimento e poteva esprimere un toponimo come la Liccia Tunda (la quercia tonda), la Liccia Manna (la quercia grande). I notai, nei loro rogiti, spesso l’hanno annotata come punto di riferimento per il confine di un terreno. I nostri antenati ne utilizzavano il tronco per la struttura dei carri, pesante ma solida per affrontare le forti sollecitazioni delle piste pietrose e spesso scoscese.

L’esemplare in immagine (foto del 1986)  ha superato di gran lunga secoli di età; raggiunge una decina di metri d’altezza e copre la pista di fronte. E' cresciuta al fianco di un imponente masso granitico alla pendice nord del Nuraghe Ruju. I nostri antenati la chiamavano la Liccia di lu Rotu  (la quercia dell’aia) poiché nelle vicinanze vi ammucchiavano i covoni per essere  mondati.

La sua rispettabile longevità è testimone eloquente di un passato di sacrifici, operoso e creativo nella serenità drammatica, e avvincente di albe e tramonti, brine e nevicate, colonie di ciclamini e viole.

Paolo Demuru

giovedì 19 maggio 2016

Attrezzature agricole del passato




Elemento di erpice a maglia
Mi chiedo quanti ricordino ancora l’impiego dello strumento rappresentato nel disegno a lato. Si tratta di un elemento di un erpice a maglia ormai non più in uso da svariati decenni. Detti elementi realizzati, in ghisa da fusione e tenuti da anelli variamente costruiti, formavano una sorta di tappeto quadrangolare con lato di poco più di un metro. 

Generalmente era un attrezzo usato a trazione animale e serviva a diradare, con le sue tre punte per lato, le erbe a cespuglio che crescevano in mezzo al grano. Durante l’operazione di erpiciatura il grano,  avendo foglia lunga e sottile, generalmente se la scampava ma l’erba a cespuglio era destinata, in parte a soccombere o comunque a subire maggior nocumento. Intanto la pianta del grano, che aveva sofferto meno, si riprendeva prima e godeva della sminuita aggressione delle concorrenti. 

Questa macchina semplice e necessaria ha perso valore con l’introduzione dei diserbanti, costosi e inquinanti, distribuiti spesso in modo poco adeguato e con mezzo meccanico. L’erpice a maglia poteva essere usata anche per coprire il seminato se era avvenuto su terreno  appena arato. 

Finite le operazioni giornaliere l’erpice a maglia poteva essere arrotolato su se stesso e comodamente caricato su mezzo e riportato in azienda. La sua durata dipendeva dall’utilizzo e dall’area più o meno pietrosa che doveva  trattare, ma comunque il cuscino erboso sul quale scivolava lo preservava alquanto. Le parti più usurate potevano essere facilmente invertite o sostituite. È stato per anni un buon aiuto per il contadino poiché in precedenza il diradamento delle così dette erbacce avveniva manualmente a mezzo di zappe. 

L’erpice a maglia fu subito superato da svariati modelli fissi a trazione meccanica ma questi sono destinati principalmente ad altre aree più libere, estese e pianeggianti dove la funzione dell’uomo tende a scomparire dietro il rombo e il fumo delle macchine.



Paolo Demuru

lunedì 16 maggio 2016

Lavori del passato



Balascia, massi per aia


Presso il nuraghe Ruju, a una quarantina di metri, nel pianoro verso sud, vi era uno spiazzo dove  cresceva rigogliosa una vasta colonia di gramigna. Legava il terreno a modo che qualunque traffico non ne distoglieva il suo tessuto dal suolo. I nostri antenati vi portavano i covoni del grano appena mietuto e li ammassavano al confine dello spiazzo. 

Quando decidevano di mondare il grano dalla paglia ossia separare le cariossidi dalle spighe  ammucchiavano i covoni slegati al centro dello spiazzo.  Aggiogavano  buoi, anche diverse paia e trainando un masso che legavano con una fune al giogo, con andamento circolare sul mucchio cercavano di sminuzzare e frantumare le spighe. Gran parte dell’opera era risolta anche dagli zoccoli ferrati dei buoi stessi e in minima parte dall’uomo che li seguiva. Questa operazione durava finché le spighe non erano tutte frantumate e le cariossidi liberate dall’involucro legnoso.

A questo punto i buoi venivano allontanati e con dei forconi asportata tutta la paglia e ammucchiata in un lato sottovento. Il lavoro doveva essere eseguito nelle ore più calde affinché l’umidità della notte non influisse negativamente sulla frantumazione delle spighe.  

Il caldo e la polvere portavano a uno sforzo notevole, per cui, data anche l’ora, gli operatori si arrendevano al pranzo quasi augurale poiché, a breve avrebbero finalmente messo al sicuro la fatica dell’annata. Non era proprio così. Per separare il grano dalla pula era necessario attendere il pomeriggio, quando la brezza si faceva sostenuta e gentile per sollevare con pale di legno e abile gesto grano e pula per la separazione. Tutto doveva avvenire nel più breve tempo possibile se si voleva evitare che formiche ed uccelli appagassero le loro voglie prima del contadino.

Avevamo preservato per tanti anni tre dei massi usati allo scopo (nei massi veniva scavato a mano un solco per legarvi la fune del traino) ma dei tre possiamo mostrarne  solo l’immagine poiché due di essi furono rubati negli  anni scorsi. 

È l’ultima testimonianza di un’attività millenaria scomparsa per sempre.


Paolo Demuru