venerdì 29 giugno 2018

Progetto culturale in difesa dell'ambiente nel nostro Museo all'Aperto

Testo poetico in Gallurese


Con questa prima epigrafe su lastra di rame abbiamo dato inizio al nostro progetto culturale relativo all'esposizione, all'interno del nostro Museo all'Aperto, di poesie o sillogi riguardanti la natura, affinché il Museo diventi anche un luogo di riflessioni riguardo al rispetto e alla difesa dell'ambiente.




mercoledì 20 giugno 2018

Questa mattina... in un sogno...Il Mulino ad acqua

Idealizzazione di uno spaccato del mulino idraulico costruito dal Cav. Bua sul torrente Lu Riigghjolu alla fine dell'800.

Questa mattina mi sono svegliato piuttosto presto, ho guardato l’ora e mi sono permesso di indugiare ancora un po’ a letto e un sonno leggero mi ha pervaso; quel sonno mattutino che spesso si carica di riflessioni, di rimembranze, di sogni che appena svegli si dimenticano. A me il sogno di questa mattina è rimasto impresso e ve lo voglio brevemente riepilogare. Forse non godrà l’interesse di molti, ma quello mio personale e quello di un certo ragazzo sicuramente sì: si tratta di un fanciullo che già è venuto a rendere il mio sonno vagamente impegnato altre volte, in passato.

Questa mattina mi è dato di incontrarlo indaffarato presso un minuscolo ruscello che a maggio, in quei piovosi anni cinquanta ancora scorreva vivace, superando pendii tra rapide, cascatelle e qualche breve ansa, presso la casa in cui era nato e vi aveva trascorso appena un paio di lustri. Incontrato, come ho detto, alle prese con un tronco di canna che aveva spaccato e intendeva usare per prelevare dell’acqua prima di una cascatella ed incanalarla a modo di acquedotto.

Aveva sistemato le due canne in posizione di tegola per trasportare l’acqua il più lontano possibile, sì da farle fare un bel salto, o cascata. Per sostenere l’acquedotto pensile aveva usato forche di legno conficcate all’estremità inferiore nella terra umida ai margini del piccolo corso d’acqua. Osservò il liquido scorrere nelle canne che dopo un certo salto già scavava la sabbia umida fra il crescione e la menta che vi erano verdi e tenere. Vi pulì accanto un piccolo spiazzo e corse verso casa, pensando ad una prova, anzi, ad un collaudo vero e proprio. Cercò, frugò in un nascondiglio segreto a fianco del muro che si trovava all’interno dell’orticello che fiancheggiava la sua casa e ne trasse un modesto marchingegno in legno e sughero; collocatolo sotto il braccio destro corse al ruscello.

Collocò il manufatto a fianco all’acqua che scendeva trasparente dalla canna che già schizzava sui cucchiai in legno collocati sulla circonferenza di una ruota in sughero che subito cominciò ad accennare la sua rotazione che attraverso l’albero doveva far muovere un semplice ingranaggio atto a trasformare il movimento orizzontale in verticale.

In cima all’asse verticale vi era solidale una ruota piena che ruotava a contatto dell’altra inferiore fissa attraverso la quale passava l’alberino in movimento. Il collaudo che si aspettava non aveva tradito, si era manifestato secondo le sue attese, almeno finché il legno ed il sughero non avevano assorbito tanta acqua da  rallentarne o impedirne i movimenti.

Mentre il fanciullo si godeva lo spettacolo, ripagato e soddisfatto, vide in lontananza il proprietario dell’area che approssimava e sarebbe passato proprio in quel punto. L’imbarazzo fu tanto, pur sicuro che non l’avrebbe ripreso. Non voleva, in ogni caso,  affrontare il confronto diretto e si nascose dietro un giovane ilatro, coperto abbondantemente di ‘itialva (clemàtide) che lo rendeva quasi impenetrabile.

Da quella posizione, sicuramente non visto, aveva osservato l’uomo, poco più che cinquantenne, avvicinarsi al guado e, sul punto di allungare il passo per saltare il rigagnolo fermarsi un attimo, osservare il manufatto in movimento con una smorfia compiaciuta, tra le libellule nere che volavano indifferenti. Quando l’uomo era ormai scomparso dalla vista il giovinetto tolse le canne, e le strinse con una mano, prese sottobraccio il prototipo gocciolante e scappò velocemente verso casa. Era soddisfatto di avere riprodotto in miniatura il mulino idraulico che per mezzo secolo vi aveva girato a poche centinaia di metri.

Per me il sogno mattutino, che per un attimo mi aveva portato in una lontana e nostalgica realtà, svanì consegnandomi a ben altre premure.


Paolo Demuru

giovedì 7 giugno 2018

La mandria di Balascia (la mandra di Balascia)

La Mandra di Balascia
A Balascia, nell’area del Museo Tematico all’Aperto, tra le altre tracce visibili del lavoro umano vi sono i ruderi di due mandrie, sorta di recinti costruiti  in muratura a secco, di ricovero per il gregge. Parlare di una di queste è, senza dubbio, tornare un po’ indietro, non tanto nel tempo come tale, quanto nel processo economico sociale che, dico io, in sì breve volgere di anni ce ne ha allontanati. Cercando, appunto, di fare memoria attraverso il polverone che ci divide e facendoci condurre da quel filo immaginario che ci può unire, vediamo se, in breve,  è possibile manifestare il mio intento.

La mandria, nella vita agro pastorale di anni addietro assumeva importanza quasi vitale per i rapporti tra gregge (di capre soprattutto) e pastore; per questo la sua collocazione nell’azienda godeva di non poca riflessione. Tra le tante opportunità che doveva assolvere vediamone alcune: vicinanza alla casa del pastore, luogo asciutto, base solida, in leggera pendenza e al riparo dai venti.

Il recinto, spesso, era alto e sormontato da (lu rasittu) frasche dure e pungenti (rami di ginepro) per dissuadere le capre dal loro facile saltare. L’unico accesso era assicurato da un cancello  in legno (la ‘jaca) di ginepro od olivastro (nibbaru o uddhastru) costruito dallo stesso pastore. Poteva aprire verso l’interno o l’esterno poiché il perno era sistemato, solitamente, al centro del muro che lo reggeva. Il fermo era sovente risolto con due legni amovibili che conficcati nel muro, nel lato opposto al perno, ne assicuravano la chiusura e ne favorivano l’apertura.

Una pertinenza immancabile illa mandra capruna era (lu salconi)  il ricovero dei capretti destinati alla commercializzazione. Si trattava di un tunnel o corridoio a sezione triangolare con ingresso dall’interno della mandria e corpo esterno ad essa. Questo particolare era quello che distingueva la mandria delle capre da quella delle pecore, generalmente più semplice e spesso un chiuso risolto semplicemente con cisto (mucchju) o frasche simili, e che aveva pavimento in pietrame e pareti interne in tronchi che si incontravano verso l’alto per essere coperti ancora con zolle di terra o pietrame stesso.  I tronchi potevano essere sostituiti da lastre in granito le cui estremità superiori si incontravano per assicurare la maggior stabilità.

Una mandria poteva avere uno o più salconi, a seconda della capienza o della quantità dei capi che componevano il gregge. Altro particolare era il sistema di chiusura: una sorta di tronchi di lunghezza decrescente verso l’alto erano tenuti da due tronchi conficcati nel terreno che seguivano la stessa geometria della sezione del ricovero e ben fissati all’estremità superiore. L’apertura e la chiusura avvenivano togliendo o  aggiungendo gli appositi legni nella successione appena annotata. La stessa mandria poteva disporre di vani laterali, nel muro perimetrale, necessari per appoggiare contenitori o altri oggetti necessari alla miglior conduzione della vita pastorale.

I capretti, come accennato, non dovevano da subito seguire le madri al pascolo, poiché si sarebbero esposti a molti pericoli da parte di predatori, sarebbero subito dimagriti e l’approccio con le essenze vegetali che sarebbero andati brucando potevano togliere gusto alle loro carni pregiate; inoltre avrebbero succhiato dalle madri tanto latte che il pastore non ne avrebbe avuto abbastanza da poterlo trasformare in formaggio, direttamente o indirettamente, né assumerne lui stesso per il suo necessario sostento.

Altra caratteristica riscontrabile nella mandra capruna poteva essere la parte coperta con frasche (lu barraccu) per dare al gregge e al pastore mero riparo durante la mungitura e, dopo, mentre consegnava i capretti alle rispettive madri per la poppata serale o del mattino.

In questi ambienti si esprimeva il pastore, tra i rigori delle stagioni e gli imprevisti più vari che potevano  riguardare malattie e morienze di capi o scarsità di pascolo, poca resa di latte, carenza di capretti da destinare alla vendita e, non ultimo, calo di prezzo del prodotto.

Il suo vivere poteva essere sano, spensierato e bucolico ma spesso  si manifestava in sacrifici e attese mai compensate. Non sempre il canto che esprimeva dietro il gregge veniva da soddisfazioni ma bensì dalla necessità  di dare ragione alla su stanchezza e senso alla sua solitudine. Non nella certezza ma nella speranza i pastori del mondo e di questa contrada hanno tradotto la vita fino a noi; ora la ricerca sfrenata del più e del meglio ci ha introdotto in una nuvola ingannevole dalla quale pare trapeli sempre,  maggiore arrendevolezza e meno serenità....

Paolo Demuru