martedì 26 luglio 2016

Va, pensiero (Anda, pissamentu)



"Anda, Pissamentu", acquerello su carta, Paolo Demuru, 2016


Ieri  sera, dopo cena, non avevo voglia di leggere e neppure di scrivere e mi sono dedicato ad ascoltare musica; ho divagato dalle canzonette fino alla musica classica. Ho riascoltato dal Nabucco quel bel coro del 1842, “Va, pensiero”… un canto di esuli di tanto tempo fa. 

Il testo supera di poco il secolo e mezzo, i fatti che lo hanno ispirato, invece, si sono rinnovati, da tempo immemorabile, continuamente fino a noi, un po’ esuli, un po’ oppressi, un po’ sconfitti. Come il poeta Solera potrei anch’io, in un momento di raccoglimento nel versante dei ricordi invitare, se non altro, il mio pensiero, a vagare, o meglio, a posarsi sulle colline dove profumate spirano le brezze libere e leggere del luogo natio. 

Potrei invitarlo anche a salutare i siti a me più cari, di cui conservo maggiormente immutato ricordo, o quelle realtà che mi sono state vicine e ormai sottratte o scomparse: non potrei fare a meno di accorgermi, in tal caso, quanto ho perso per quel che ho guadagnato e le rimembranze che emergono nel mio petto non sono altro che il racconto del passato. Trarrei dalle tragedie solo dolore se non mi venisse incontro una tal forza a dare senso alle mie fatiche, al mio disagio interiore. 


Meditando su quel canto ottocentesco mi sono chiesto come avrebbe suonato se lo avessi voluto tradurre nella mia lingua d’origine, in Gallurese (in Cossu)…



Anda pissamentu subbr’ali ‘nduriati

e and’e posati in settil’e coddhi,

in undi cantani libar’e moddhi

li frini dulci di lu locu natiu.



Di lu riu li so’ ribbi saluta,

di li so’ licci li trunchi caduti;

oh me’ tarra si beddha ë palduta,

oh l’ammentu si caru ë fatali.



E sonu beddhu di l’antichi fati

palchì mutu da l’alburu pendi;

li mimorii ‘llu pettu n’accendi

e ci mintoi d’un tempu passatu.



O solu da l’usciati ghjà fatti

ni trai sonu di crudu lamentu,

o ti spiri lu Signori unu ‘ntentu

chi n’infundia ‘llu patini viltuti.



Chissà se qualche futuro Verdi  intingerà mai spartiti per le mie quartine e mai orchestre strapperanno lunghi applausi in teatri affollati… ma che importa. 

Gli applausi sono pur sempre il fragore, il suono di mani che manifestano il giusto plauso a un’opera ben riuscita, la musica il suono degli strumenti accordati a modo per vestire d’incanto talora versi struggenti, la poesia resta comunque la musica del cuore, la danza della verità, la voce dello spirito.



Paolo Demuru

martedì 19 luglio 2016

La trota del fiume (la trota di lu Rìigghjolu)




La trota del fiume, colori a cera su cartoncino, Paolo Demuru, 2016

Osservando dai punti panoramici che s’incontrano sul versante est e sud della nostra area, scorgiamo in buona parte la vallata, scavata durante la sua lunga vita da lu Rìigghjolu (fiumiciattolo). 

Esso ha sorgente presso il Passo del Limbara proprio sulla strada provinciale Oschiri-Tempio, da dove, seguendo il pendio più o meno accentuato che comunque degrada man mano che si avvicina al lago (Coghinas) dove sfocia, il torrentello ha dato motivo all’insediamento dei miei antenati già da oltre due secoli e mezzo, ed ad altre famiglie che vi si sono aggiunte alla fine dell’ottocento. 

Ha donato generosamente le sue acque limpide che faceva scorrere tra due filari di ontani per dissetare, innaffiare, lavare, quando la calura estiva imponeva i suoi rigori. 

Nei periodi di forti piogge ha mostrato tutta la sua irruenza nelle acque torbide e talora tanto impetuose da scoraggiare ogni tentativo di guado o d’attraversamento, poiché non disdegnava appropriarsi dei modesti ponti in legno predisposti  per necessario disimpegno. 

È stato provvidenziale nel suo dare ma per questo, tra gli uomini, non sono mancate rivalità e motivi di scontro, ma ha fatto anche girare macine di mulini per oltre mezzo secolo e ha favorito il rinnovamento di parecchie generazioni. 

Ha accolto le fatiche di tante massaie e le aspettative di quanti vi hanno coltivato orti e piante lungo il suo breve corso. 

Lu Rìighjolu era prodigo non solo per quanto ho semplicemente riferito ma anche per un’altra dote millenaria, fino a quando non ne è stato spogliato, suo e nostro malgrado. Nelle sue acque, fresche d’estate perché all’ombra degli ontani e altrettanto tiepide d’inverno per le stesse ragioni, vi guizzavano trote e anguille

Ricordo quando osservavo le trote, a volte solitarie e a volte in branco, pascolare lente e tranquille nell’orlo delle piscine ma pronte a scomparire sotto i graniti o tra i limi verdi che ricoprivano parte del letto. 

Grandi e piccole, sempre maculate di nero e di rosso, potevano essere pescate a mano, se abili, con ami provvisti di adeguata esca o sparando una pallottola di fucile vicino alla testa. In questo caso lo spostamento dell’acqua tramortiva il pesce che facilmente poteva essere raccolto quando la corrente stessa lo trascinava a portata di mano. 

Per le anguille (l’anghiddhi) bisognava essere ancora più abili e fare uso di fiocine (li fruscini) ben provviste di fendenti acuminati. Poteva farsi ricorso all’uso di nasse (sorta di imbuti  costruiti con giunchi o vimini) collocate nelle strettoie e nei punti dove l’acqua acquistava maggior velocità.

Negli anni cinquanta, per un prelievo sempre più insensato che non teneva più conto del fabbisogno reale ma del vago apparire,  della scommessa o del confronto e l’uso di particolari marchingegni di cattura (corrente elettrica, o sostanze aggressive come lue o calce), le trote sono andate scomparendo

I mezzi usati, oltre a facilitare la cattura del pesce grosso, distruggevano gli avannotti (li ciarretti) e, non ultimo, le prede, per cui neanche l’impianto costruito sul Limbara per allevare uova ed avannotti da immettere nel fiume vi ha portato rimedio e le trote sono scomparse da lu Rìigghjolu.

Perfino le sue portate d’acqua sono diminuite e in certi periodi dell’anno quasi non scorre più. Avvicinandosi alle sue rive spesso non si ode più il suo rumorio ritmico e armonioso che invitava, tanti anni fa anche la mia gattina esperta di pesca. Tante volte l’abbiamo sentita miagolare, presso l’uscio e, affacciandoci, l’abbiamo vista ancora bagnata in parte e con in bocca insolita preda: una trota, appena pescata.

Il torrentello aveva un legame di affetto con molti valligiani e questi ultimi con esso: avvicinarsi al fiume era quasi un rito e perfino Bernardo De Muro, (Birraldinu, lu Tinori il cui padre era nato presso le sue rive) durante le sue permanenze tra i parenti, non perdeva l’occasione di dedicare un pomeriggio a cercare di pescare trote nelle sue acque.

Questo ed altro è stato lu Rìigghjolu finché gli uomini hanno manifestato buon senso e fatto ragionevole uso  dei doni insostituibili che Madre Natura ha gratuitamente offerto sul suo provvido piatto d’argento.

Paolo Demuru

martedì 12 luglio 2016

La trebbiatrice



La trebbiatura, gessetto, Paolo Demuru, 2016

Ricordo come in un sogno, come in un dipinto dai colori tenui e dal contorno sfumato, il mio primo approccio con la trebbiatrice. Era probabilmente una mattina di luglio, assolata e ben tiepida come tante, ma ciò che andavo a vedere mi entusiasmava e mi incuteva soggezione allo stesso tempo.

Quando arrivai nei pressi dell’antica aia cominciai a vedere una macchina su quattro ruote, nera, che sembrava in procinto di sudare olio dalle sue parti metalliche, e ne sentii subito l’odore nauseante e insolito. A un lato una puleggia e una cinghia che vi partiva per collegarsi ad un'altra macchina, anch’essa montata su quattro ruote ma questa era fasciata in legno e di colore rosso. Ai suoi lati vi erano pulegge e cinghie e attorno uomini intenti a mettere a livello, a sistemare cunei alle ruote, a controllare la tensione delle cinghie e soprattutto quella più grande e incrociata che collegava le due macchine. 

Quando avviarono il motore (prima macchina), un rumore quasi assordante accompagnò una nuvola di fumo denso sprigionarsi da un tubo verso l’alto e una vibrazione, che sembrava trasmettersi ad ogni dove. La cinghia incrociata prese a muoversi e quel movimento si trasmise immediatamente alle altre ai lati della rossa trebbiatrice. Un operatore con il fazzoletto al collo e il capo coperto salì la scala fin sopra e vi prese posto. Altri dalla stessa scala portavano su i covoni (li manneddhi).  

L’operazione di separazione del grano dalle spighe aveva inizio in una nuvola di polvere che piano piano invadeva la piccola area circostante, finché una tenue brezza non le indicava una direzione preferenziale. Al lato della trebbiatrice un operatore si apprestava a sistemare il sacco che lentamente andava riempiendosi di chicchi dorati mentre altri s’impegnavano  a spostare la paglia che dall’ultimo vaglio veniva scaricata meccanicamente. Altri controllavano attentamente passando e ripassando sotto quella cinghia incrociata, chinando il capo e abbassando le spalle per prudenza. 

Anch’io passai sotto quella particolare cinghia, anch’io chinai il capo e abbastanza le spalle, forse fino a mettere parte della schiena in posizione orizzontale. Allontanatomi alquanto pensai di raddrizzarmi ma con sorpresa vidi alcuni ben più adulti di me che mi guardavano sorridenti. Capii subito che sarei potuto passare tranquillamente in posizione eretta, volsi lo sguardo altrove e continuai verso un punto dove la polvere era meno vistosa e il rumore meno assordante per meglio osservare l’insieme dove il tutto mi apparve più normale. 

Già mi sembrava che la stessa operazione a mano e con l’uso di animali, svoltasi per millenni (l’agliola), appartesse al passato. Ero di fronte al presente, anzi al futuro, e non pensavo minimamente che sarebbe bastato poco più di qualche decennio per cancellare questo stesso futuro dalle nostre terre per sempre. 


Ho rivelato solo in parte le sensazioni di quell’ormai lontano mattino di luglio, vissuto da bambino e ricordato da adulto; la parte che non ho citato la lascio volentieri immaginare a chi avrà avuto la pazienza d’aver letto queste poche righe, immedesimandosi in un bambino che non è più...o forse no.



Paolo Demuru

domenica 3 luglio 2016

I graniti di Balascia



Balascia, granito tafonato presso Lu Monti di la Greddhula


Le manifestazioni granitiche che emergono a Balascia e, specificatamente,  in quest’area non sono da meno di quelle che sfidano i nostri sensi in qualunque altra parte del mondo, dove compaiono pareti appartenenti al loro originale corrugamento.

Sono di epoca erciniana e perciò vanterebbero un’età che si aggira sui 250 milioni di anni, come le stesse della vicina Corsica  occidentale. 

Forse l’età e le vicende orogenetiche hanno influito tanto nelle loro forme ardite e suggestive. Esse ci raccontano di un passato alquanto lungo prima della comparsa dell’uomo che, pur con ingegno, difficilmente riesce ad immaginare, malgrado affermi che rappresentano un po’ l’origine del pavimento che calpestiamo. Le forme che ammiriamo oggi sono sommi testimoni di tutta la storia umana ed oltre; modellati dal tempo e dalle intemperie del caldo e del gelo ci appaiono all’improvviso nelle figure più sorprendenti. 

Ci mostrano la loro veneranda età nei tafoni, nelle filature provocate dai fulmini, nel crollo che ne è frutto e artefice del loro lento ma inesorabile disfacimento. 

Ci appaiono come esseri in perenne agonia coperti di muschi o edera selvatica e colmi di memoria, dove le orme del passato si sono indelebilmente impresse per giungere fino a noi. 

Il vento impetuoso tra i suoi picchi piange le tragedie dei viventi come ne canta e ne esalta le sue virtù quando, lasciato ogni impeto, ripiega in geniale e amorevole  brezza. 


I nostri antenati li hanno sempre osservati con rispetto ponendoli come riferimento nello svolgere quotidiano: crocevia di sentieri, confini di proprietà,  toponimi, punti d’osservazione (spiriatogghj), orologi dell’alba e del tramonto, di mesi e stagioni. Vi si sono riparati dal sole, dai venti e dalle grandinate improvvise per millenni uomini ed armenti. 

Presso le loro basi vi crescono lecci millenari perché ne attingono l’acqua dalle loro riserve povere ma perenni. 

Sulle loro cime vi nidificato uccelli di grosso calibro (aquile, grifoni), vi sono saliti banditi per scrutare l’orizzonte, vi sono salite capre per godere la brezza nelle ore più calde o per fuggire, spesso inutilmente, l’impeto distruttore del fuoco, quando l’uomo non ha trovato altro sistema per sfogare invidia, odio o rancore.



Paolo Demuru