lunedì 22 agosto 2016

Il portalettere (lu di li littari)




Volevo iniziare quest’argomento con la classica dicitura “C’era una volta…” ma mi accorgo subito che non va bene e correggo: “Non c’era una volta…” ma neanche questa espressione mi convince, soprattutto perché così non è mai stato; infatti “non c’è mai stato…” (giusto) nelle nostre contrade un portalettere (lu di li littari). 

Eppure le lettere nelle nostre case giungevano e da esse partivano per destinazioni vicine e lontane. Hanno tenuto i contatti con gli emigrati in America nei primi del novecento, con i trincerati della prima guerra mondiale nelle aree del Piave, con i fronti d’Europa, di Russia e d’Africa durante la seconda guerra mondiale

In tempi ormai nostrani si sono scambiate notizie  a mezzo lettera i familiari con i soldati, spesso destinati a caserme del nord Italia, Cuneo, Belluno, Gorizia, e con gli emigrati in Corsica, Nord Italia e Nord Europa.

Penso agli analfabeti, specialmente donne che dovevano rivolersi a qualche semi alfabeta per far scrivere missive per il proprio figlio, per il fidanzato, per il marito e, quando giungeva, farsi leggere la risposta…! Solo un rapporto di particolare fiducia e onestà tra le parti poteva far sì che si svolgesse un compito così delicato. 

Penso a quanto cerimonioso fosse scegliere, durante la giornata, un momento per trovare un foglio, inchiostro e penna e dedicarsi a scrivere, mettersi in contatto con una persona lontana. Comunicare notizie, confidare emozioni, esporre premure, concludere con convenevoli sia tramite lo scrivere che con il ricevere, anche solo ricevere una cartolina con una bella immagine di uno scorcio lontano e un sintetico … “Saluti da…” e il nome dello scrivente. 

Ben altra emozione era ricevere una lettera contenente una foto dal marito in Belgio, oppure quella di un giovane che riceve la foto da una donna conosciuta in una fugace occasione...

La lettera era un braccio teso oltre il mare, un pensiero che annullava le distanze, un sentimento che si affidava ad un foglio che si materializzava mentre si leggeva. Poteva essere una conferma di forte unione o  dichiarazione di un desolante addio però sempre rivestiva solennità e profonda identità, olografa o dettata che fosse. 

Oggi affidiamo le comunicazioni alle email e le immagini a Facebook conquistando un'immediatezza quasi priva di emozioni. 

L’omu di li littari, scomparso dietro le innovazioni non è più tra i pochi ricordi di decenni or sono. Nei centri abitati il portalettere è annunciato dal rumore molesto e distinto di un motorino inforcato da un giovane in pettorina gialla che in tutta fretta deposita nella buca delle lettere avvisi  di pagamento al posto di saluti, auguri ed affetti. Il giovane in motorino assordante è un innominato, l’utente un numero civico. 

Quel signore di mezza età che passava e ripassava pazientemente per consegnare la lettera al giusto intestatario, che conosceva le famiglie una per una, che salutava e scambiava qualche battuta può essere soltanto un sogno per chi ancora ne conserva facoltà.


Paolo Demuru

mercoledì 10 agosto 2016

Notti d'agosto



Paolo Demuru  "Notti d'austu", gessetto su cartoncino, 2016


Anche in queste contrade i nostri antenati, quelli che veramente erano dediti al lavoro, nel mese d’agosto godevano giorni di meritato riposo. La raccolta del grano (la ‘ncugna) era finita, il bestiame  veniva poco accudito e il solleone d’agosto evitato, o trasferendosi in aree più fresche, vicino a sorgenti o sotto i tetti delle case, dai muri spessi.

Per loro le ore di riposo erano sovente quelle del tramonto o dopo cena, quando erano soliti sedersi all’esterno delle case, presso l’uscio. Potevano partecipare più famiglie se il villaggio era composto da diverse anime, o un solo nucleo se si trattava di case singole.

Non si distraevano con il telefonino e tanto meno impazzivano dietro i Pokemon ma argomenti da trattare ne avevano talmente tanti che spaziavano dalle fiabe (li voli) ai pettegolezzi (contarelli o narelli), dalle critiche sentite, inventate o fondate che fossero, alle semplici scommesse. Osservare più stelle cadenti (stelli mutendi) degli altri poteva essere motivo di orgoglio, prima che si levasse la luna e con il suo chiarore nascondere l’incanto, mentre i più piccoli erano colpiti deal richiamo delle volpi o dal canto della civetta o dal volo improvviso di qualche rapace notturno bianco o grigio che fosse, o ancora dal passaggio scombinato dei pipistrelli (passoritolti) nelle loro esibizioni di caccia.

Ma in tutta questa assenza di rumori procurati, inventati, esagerati, il responso della natura si faceva apprezzare nella sua grande serenità e soprattutto si faceva avvolgere dalla luce della luna, dal suo sorgere dietro il monte fino a quando si apprestava a scomparire dietro le tegole del tetto alle spalle.

A dar motivo di vaghe discussioni era spesso proprio la luna con la sua forma, il suo candore, il suo volto di donna: vecchia o attempata che apparisse, giovane amante o matura intrigante, donatrice d’amore o rubacuori, il suo  accennato sorriso non era mai privo di un certo mistero. I bambini, i giovani, gli adulti, nessuno poteva dirsi escluso da un attimo di stupore di fronte quell’astro muto e brillante che accompagnava in modo lieve la dolce veglia dopo il solleone o precedeva il sonno beato e ristoratore di tante fatiche.

Quando penso a quanti figlioli ha fatto innamorare, a quanti poeti ha indotto a scrivere, a quanti tenori l’hanno cantata, a quanti bimbi l’hanno sognata quasi mi commuovo e un senso di rispetto e gelosia nei suoi confronti mi pervade. Perché siamo andati fin lassù a posare sopra le sue immobili polveri i nostri rozzi scarponi? Volevamo forse più da vicino cogliere i suoi misteri, il suo sorriso, la sua serenità o il suo fascino? Potevamo benissimo e con meno spese continuarlo a fare dalla nostra terra nei meriggio d’agosto, subito dopo cena; potevamo farlo, dico, ma ci siamo trovati nella sorpresa di inciampare dietro un Pokemon mentre la bella luna, sempre senz’aggiungersi una ruga se non quella lasciatagli dall’astronauta, ci sfugge sorridente ormai tra i nuovi tetti. 



Cantami o luna vestita d’argento

del tuo lento ed immutato vagare,

cantami ‘l giusto, non tristo spoliare

che dalla terra ti giunge riflesso,

non privarmi d’un tepido amplesso

finché ti guardo ‘l riso da quaggiù.

Stattene, fin che puoi, sola lassù

evitando le orme degli arditi;



ti pianteranno grane e ferraglie,

ti turberanno la serena pace

e tutto quello che in te scorre e tace,

come sono soliti fare in terra:



in esecranda guerra e ‘n tristo pianto,

là non alberga  naturale incanto.



Paolo Demuru