La trebbiatura, gessetto, Paolo Demuru, 2016 |
Ricordo
come in un sogno, come in un dipinto dai colori tenui e dal contorno sfumato, il
mio primo approccio con la trebbiatrice. Era probabilmente una mattina di
luglio, assolata e ben tiepida come tante, ma ciò che andavo a vedere mi
entusiasmava e mi incuteva soggezione allo stesso tempo.
Quando arrivai nei
pressi dell’antica aia cominciai a vedere una macchina su quattro ruote, nera,
che sembrava in procinto di sudare olio dalle sue parti metalliche, e ne sentii
subito l’odore nauseante e insolito. A un lato una puleggia e una cinghia che
vi partiva per collegarsi ad un'altra macchina, anch’essa montata su quattro
ruote ma questa era fasciata in legno e di colore rosso. Ai suoi lati vi erano
pulegge e cinghie e attorno uomini intenti a mettere a livello, a sistemare
cunei alle ruote, a controllare la tensione delle cinghie e soprattutto quella più
grande e incrociata che collegava le due macchine.
Quando avviarono il motore
(prima macchina), un rumore quasi assordante accompagnò una nuvola di fumo denso
sprigionarsi da un tubo verso l’alto e una vibrazione, che sembrava trasmettersi
ad ogni dove. La cinghia incrociata prese a muoversi e quel movimento si
trasmise immediatamente alle altre ai lati della rossa trebbiatrice. Un
operatore con il fazzoletto al collo e il capo coperto salì la scala fin sopra
e vi prese posto. Altri dalla stessa scala portavano su i covoni (li manneddhi).
L’operazione di
separazione del grano dalle spighe aveva inizio in una nuvola di polvere che
piano piano invadeva la piccola area circostante, finché una tenue brezza non le
indicava una direzione preferenziale. Al lato della trebbiatrice un operatore
si apprestava a sistemare il sacco che lentamente andava riempiendosi di
chicchi dorati mentre altri s’impegnavano
a spostare la paglia che dall’ultimo vaglio veniva scaricata meccanicamente. Altri controllavano attentamente passando e ripassando sotto quella cinghia
incrociata, chinando il capo e abbassando le spalle per prudenza.
Anch’io passai
sotto quella particolare cinghia, anch’io chinai il capo e abbastanza le spalle,
forse fino a mettere parte della schiena in posizione orizzontale. Allontanatomi alquanto pensai di raddrizzarmi ma con sorpresa vidi alcuni ben
più adulti di me che mi guardavano sorridenti. Capii subito che sarei potuto
passare tranquillamente in posizione eretta, volsi lo sguardo altrove e
continuai verso un punto dove la polvere era meno vistosa e il rumore meno
assordante per meglio osservare l’insieme dove il tutto mi apparve più normale.
Già mi sembrava che la stessa operazione a mano e con l’uso di animali,
svoltasi per millenni (l’agliola),
appartesse al passato. Ero di fronte al presente, anzi al futuro, e non pensavo
minimamente che sarebbe bastato poco più di qualche decennio per cancellare questo stesso futuro dalle nostre terre per sempre.
Ho
rivelato solo in parte le sensazioni di quell’ormai lontano mattino di luglio,
vissuto da bambino e ricordato da adulto; la parte che non ho citato la lascio
volentieri immaginare a chi avrà avuto la pazienza d’aver letto queste poche
righe, immedesimandosi in un bambino che non è più...o forse no.
Paolo
Demuru
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