Si potrebbe pensare che il primo ad aver
accostato il nome di Bernardo De Muro a Francesco Tamagno fosse stato Giacomo
Lauri-Volpi nella 1ª edizione de "Le Voci Parallele" pubblicata nel
1955 e questo giudizio, nove anni dopo, nel 1964, si vide affiancato a quello
di Rodolfo Celletti nelle "Grandi Voci", che non mancò l'accostamento
di De Muro a Tamagno. Molti anni dopo, oltre trenta, Giorgio Gualerzi ebbe a
dire: "Bernardo De Muro epigono di Tamagno.... il fin troppo scontato ma
storicamente fondamentale apparentamento a Tamagno, di cui De Muro resta
certamente, con Lauri-Volpi, e per taluni aspetti ancor più del collega romano,
il più autorevole epigono novecentesco. Innanzitutto un timbro tenorile,
non inquinato da alcuna venatura baritonaleggiante, com'era appunto quella di
Tamagno [sic!]". Così, Giorgio Gualerzi nel 1997.
In realtà però, il primo che s'azzardò nel
parallelo fu, all'indomani della prima di Isabeau scaligera, avuta luogo il 20
gennaio 1912, il critico della "Perseveranza" il quale, avvinto
dall'emozione nell'aver udito lo squillo argenteo del poco più che debuttante
Bernardo De Muro e memore dei trionfi in quel teatro di cui si rese
protagonista Francesco Tamagno, così scrisse: "il pubblico della Scala fu
subito ammirato dalla singolare risonanza del timbro di questa voce e si
elettrizzò poi quando l'artista scandì gli acuti con quell'accento mordente, di
cui Tamagno ebbe il brevetto.
I meriti peculiari della voce del De Muro consistono nella bella uguaglianza di
registri, nella facilità e nel calore dell'emissione, nell'impeto che non
eccede mai nell'enfasi volgare". Il resoconto del cronista della
"Perseveranza" è da reputarsi particolarmente attendibile ancorché
veritiero, perché è stato scritto a caldo, la medesima sera del tormentato
debutto di Isabeau (De Muro conseguì straordinario successo ma l'opera fu definita
"una delusione") e perché quel cronista aveva certamente udito in
teatro nei precedenti decenni Francesco Tamagno.
Forse Giacomo Lauri-Volpi udì Bernardo
De Muro a Roma negli anni '10 dello scorso secolo, in verità non l'ho appurato,
ma è naturale che non avesse avuto esperienza diretta con la voce di Francesco
Tamagno. È stimolante però iniziare uno studio su ciò che ebbe a scrivere
proprio il tenore di Lanuvio nel 1955: "Paoli e De Muro, insieme a
Tamagno, costituiscono in trinomio delle voci-fenomeno, per potenza di
vibrazione, apparse negli ultimi cinquant'anni [si era nel 1955]. Bisogna
risalire a Tamberlick e a Duprez per trovarne un riscontro nella storia del
canto". Il tenore eroico in pretto stile romantico pone le basi su due
requisiti fondamentali: il timbro adamantino e l'estensione della voce nella
regione acuta. Gilbert-Louis Duprez, demiurgo d'una stirpe tenorile nata negli
anni 1830, suggellò il Do di petto come mèta obbligatoria da raggiungere
richiesta ai tenori, Enrico Tamberlick si spinse oltre, col Do diesis di petto,
nota questa di strabiliante potenza a detta dei contemporanei e Tamagno poi,
della cui vocalità si dispone di sorprendente riscontro nei dischi, a
cinquantatré anni fu in grado d'emettere il Do della "pira" non solo in
tono, ma con tale potenza di vibrazione da recare l'impressione all'ascoltatore
d'essere eseguito con un megafono in bocca! Ai tempi in cui Francesco Tamagno
eseguiva il Poliuto, venticinque anni prima che incidesse i dischi, è naturale
credere che giungesse di petto almeno al Do diesis, per non dire Re naturale di
petto. Francesco Tamagno è pure uno dei pochissimi tenori d'ascendenza
romantica di seconda metà d'800 di cui si ha testimonianza fonografica con
timbro chiaro, argenteo e cristallino (altro che inquinato da qualche riverbero
baritonale, Gualerzi mi perdoni!) e dunque in totale ottemperanza al tipo
vocale in questione.
Di Duprez e Tamberlick, essendo nati rispettivamente nel 1806 e 1820, non
esiste documentazione fonografica e, stando alle testimonianze del tempo, pare
avessero timbri non esattamente chiari, ma è certo fossero in grado d'emettere
acuti di forza tellurica. Duprez, nell'emissione "di petto" giungeva
al Do naturale acuto, l'amico Donizetti però gli riserbò un Mi bemolle
sovracuto nel finale 1º della Lucia di Lammermoor da eseguire una terza sopra
il Do del soprano: tale nota, concepita per essere emessa con "voce
mista", era in Duprez così risonante da recare l'idea d'un Mi bemolle
sovracuto "di petto".
Di questo tenore non abbiamo dischi, e
dunque una valutazione sul timbro della sua voce, fosse chiaro o scuro, sarebbe
in questa sede per forza di cose prematura, ma c'è da rammentare anche che dopo
di lui vi fu un "continuatore" di quella vocalità, un altro tenore
francese, nato nel 1859 e reputato dai contemporanei legittimamente di Duprez
epigono, il quale ebbe modo nel 1905, presso la Fonotipia, di lasciare dischi,
ancor oggi sorprendenti. La sua voce appare molto chiara, i centri governati
con estremo controllo e gli acuti, fino al Do diesis "di petto",
scaraventati con forza spasmodica: il suo nome era Léon Escalaïs. Si potrebbe
dedurre che intercorresse fra i due tenori un collegamento anche con la
chiarezza del timbro, essendo stato reputato Escalaïs epigono di Duprez e della
stirpe dei tenori di forza d'800.
Morto Tamagno nel 1905, il tenore che nel '900 ripropose con maggior
compiutezza il tipo vocale del tenore eroico romantico, stilisticamente,
tecnicamente, con timbro chiaro e forza negli acuti, fu proprio Giacomo Lauri-Volpi.
Ora, tornando a Bernardo De Muro, alla vocalità da lui espressa e al repertorio
che egli eseguì in circa trentatré anni di carriera, si constata solo una parte
invero esigua dedicata alle opere romantiche di metà '800. Tolta L'Africana,
che De Muro eseguì nel 1911, 1914, 1915 e 1918, sostanzialmente il solo
Trovatore venne tenuto dal tenore tempiese in repertorio costante come opera di
metà '800. Il resto delle sue abituali esecuzioni era costituito da Cavalleria
Rusticana, Carmen, Isabeau, La Fanciulla del West, Aida e Andrea Chènier.
Questo fu il suo repertorio abituale.
In nessuno di questi lavori il Do acuto
è presente, essendo opere del tardo-romanticismo e dell'epoca verista, opere,
queste, oggetto anche d'un generale ridimensionamento di tessiture in favore
dell'espansione del "medium". In una analisi dettagliata delle
incisioni di Bernardo De Muro apparsa nel 1968 su "The Record
Collector", dettagliata sì ma anche piuttosto agiografica, J. A. Léon
sostiene che l'estensione di Bernardo De Muro partisse dal Si bemolle basso e
arrivasse addirittura al Do diesis acuto, ma, riguardo ciò, non ho avuto
riscontro nei resoconti dei cronisiti, né una risposta potrebbe trovarsi nel
repertorio dal tenore eseguito. Onestamente nemmeno saprei indicare la fonte
dalla quale Léon avesse attinto nel 1968 questa notizia. Il dato di fatto è che
in disco, Bernardo De Muro, non si spinge oltre il Si naturale acuto e
l'incisione della "pira", peraltro ragguardevolissima e con le
quartine "di forza" staccate come da spartito, fu da lui realizzata
mezzotono sotto, in Si naturale, e con molti anni in meno di Tamagno sulle
spalle.
Rimangono ancora da esporre alcune considerazioni sul timbro della voce. S'è
detto prima come il timbro della voce del tenore eroico di metà '800 fosse
generalmente chiaro e argenteo. Anche in quest'ambito però, a mio giudizio, si
cadrebbe in errore se si ponesse un raffronto tra De Muro, Tamagno e gli
epigoni dei tenori stentorei di quel ceppo vocale.
Accantonando il lascito discografico,
nelle non scarse recensioni su Bernardo De Muro nelle quali mi sono imbattuto,
vi sono per lo più giudizî non collimanti: alcuni ne rimarcano la brillantezza,
altri ne sottolineano i centri ombreggiati e gli acuti lucenti ma ben poche ne
rilevano il timbro chiaro. De Muro stesso, d'altronde, studiò per un breve
periodo da baritono con i dischi di Titta Ruffo, voce non esattamente
chiara.
Tutto quanto esposto, dunque, non
farebbe di Bernardo De Muro un tenore in pretto stampo romantico, epigono di
Francesco Tamagno. Non ebbe l'estensione di quel tipo vocale, non ne ebbe il
repertorio e, probabilmente, nemmeno il timbro. Dispose però d'una voce la cui
potenza negli acuti riconduceva il pensiero allo squillo adamantino di cui
Francesco Tamagno fu l'esponente per antonomasia in Europa fino al 1899 (anno
nel quale eseguì alla Scala ancora il Guglielmo Tell all'età di quarantanove
anni, conseguendo successo strabiliante). Credo sia invece giusto e lecito
inquadrare il De Muro tra la generazione tenorile di cui Enrico Caruso fu il
vessillifero, sia per circostanze di gusto e stile, sia anche per vocalità.
Le incisioni di Bernardo De Muro costituiscono documento di grande importanza
storica e una considerevole parte di esse, dopo cento anni, teme ben pochi
confronti, anche se non tutte sono del medesimo livello, e nella fattispecie,
il duetto dell'Aida e poche altre invero. Non è nemmeno facile reperire
riversamenti accettabili dei dischi di De Muro: i tre compact disc pubblicati
dalla Bongiovanni nel 1995 sono purtroppo affetti da suono inscatolato e
ovattato, privando così la voce delle vibrazioni naturali: si capisce da
lontano che l'editore, anziché effettuare un vero lavoro di restauro con i 78
giri originali, abbia invece copiato il contenuto dei 4 LPs pubblicati quattordici
anni prima, nella benemerita opera di commemorazione per il centenario dalla
nascita del tenore. Apparvero poi, tra gli anni '60 e '70 dello scorso secolo,
per la Rubini, Club 99 e Timaclub, ristampe dei dischi di De Muro quantomeno
accettabili e godibili, indicherei però nel Cd a De Muro dedicato e stampato a
cura della Preiser - Lebendige Vergangenheit il miglior riversamento oggi in
circolazione dei suoi dischi (in circolazione nemmeno tanto, per il fatto che
da circa sei anni quest'etichetta abbia chiuso i battenti!).
Qualora non si fosse nelle condizioni di
disporre dei 78 originali e riprodurli in un apparecchio d'epoca con le giuste
puntine, è di fondamentale importanza udire la voce d'un cantante del passato
in riversamenti limpidi e chiari, nei quali la voce sia stata riversata
direttamente dai 78 giri originali e l'applicazione dei filtri per ridurre il
fruscìo di fondo non ne abbia intaccato la lucentezza del timbro. Premesso
doverosamente ciò, il timbro di De Muro nei dischi si presenta alquanto
singolare: voce naturalmente ampia nei centri, caratterizzata da un colore
maschio, a metà tra il chiaro e lo scuro, e sorprendentemente nobile. La
leggendaria regione acuta, in disco estesa fino al Si naturale, si presenta, a
parte la potenza del volume, straordinariamente lucente e compatta. Al
riguardo, debbo convenire, De Muro evoca la lucentezza dello squillo dei tenori
stentorei romantici. Più che potenza, forse è meglio parlare di penetrazione
del suono.
È indiscutibile il fatto che De Muro
fosse in possesso d'una natura fuori dal comune, è giusto ricordare anche che
la penetrazione del suono negli acuti, lo squillo e la ricchezza della
vibrazione siano requisiti realizzabili con l'attuazione della corretta
emissione vocale. Diversamente, in alto, in luogo dello squillo s'avrebbe
l'urlo e, nel medium, in luogo della rotondità e della nobiltà s'avrebbe il
suono aperto e schiacciato. Adesso procederei a ritroso.
Bernardo De Muro nacque a Tempio
Pausania il 3 novembre 1881 da una famiglia di agricoltori galluresi di umili
origini. I genitori, essendo affetti da malaria, trasmisero al bambino una
fragilità fisica che difficilmente superò anni dopo nell'adolescenza: appena
nato, la mamma, non disponendo del latte sufficiente per nutrirlo, lo fece
allattare da una capra. Anche la conquista dell'autonoma deambulazione fu dura:
al bambino fu messo in testa un cuscino di gomma per proteggerlo dai colpi
delle cadute a terra! All'età di cinque anni fu mandato a scuola, ma con
risultati assai scarsi: entrò al ginnasio per il rotto della cuffia e vi rimase
poco tempo. Iniziò quindi a lavorare in diversi impieghi e, raggiunta la
pubertà, il fanciullo scoprì la voce.
Essendo la famiglia non abbiente e mosso
dallo scrupolo d'aiutarla (con i fratelli era numerosa), dovette attendere il
1903-1904 (la data certa non sono riuscito ad assodarla), con il servizio
militare e giungere a Roma, all'epoca punto nevralgico per lo studio del canto,
avendo a Santa Cecilia la scuola più prestigiosa d'Europa e forse del mondo.
Superata l'ammissione e lo stuolo di aspiranti cantanti, che lì concorrevano
con Bernardo De Muro per una manciata di posti disponibili, fu ammesso nella
classe di Antonio Cotogni. Come in altri casi celeberrimi (ad es. Jan
Mieczysław Reszke o Benvenuto Franci), il grande baritono-didatta non
classificò subito il De Muro come tenore, avendo il giovane naturale estensione
e potenza in ogni registro, e tentò di portarlo avanti nello studio con i soli
vocalizzi nel preciso scopo d'educarne la voce.
Il periodo a Santa Cecilia si concluse
poco dopo. Il giovane cantante, impegnato con il servizio militare e non avendo
molto tempo per frequentare il conservatorio, decise di trovarsi un insegnante
privato. Costui era il maestro Sbriscia, all'epoca settantacinquenne, il quale
condusse anch'egli anni prima la carriera artistica tenorile. Era poi stato
qualche anno prima anche il maestro di Carlo Galeffi, e fu il primo ad
inquadrare definitivamente il De Muro nella cerchia dei tenori drammatici.
Evidentemente, già a ventidue anni, il ragazzo possedeva potenza di voce non
trascurabile. Iniziando a farsi largo nell'ambiente teatrale romano, il giovane
tenore ebbe modo di farsi ascoltare da due colleghi veterani i quali portavano
i nomi di Francesco Marconi e Alessandro Bonci e, assistendo De Muro a una
rappresentazione all'Argentina dell'Elisir d'Amore con Regina Pinkert e
Alessandro Bonci (era il 6 giugno 1906, dir. Luigi Mancinelli), il giovane
tenore fu letteralmente sbalordito dal cesenate, che così da Bernardo De Muro
viene ricordato: "non so descrivere le impressioni che mi suscitò. Salivo
all'estasi e ne precipitavo nel più profondo avvilimento di me stesso. Mai e
poi mai sarei arrivato a tanto fatte le debite differenze: la voce di Bonci da
tenore lirico la mia da tenore drammatico. Recatomi in un intervallo dell'opera
nel camerino del grande artista, gli confessai che se il giorno prima mi
sentivo qualcosa ora mi sentivo come perduto. Bonci mi incoraggiò con parole
che mi si impressero «caro giovanotto, se tu seguirài i nostri consigli potrai
essere un giorno anche tu un grande tenore». Quando Bonci morì nel 1940
a Viserba
dove le nostre famiglie si erano ritrovate per i bagni, noi fummo i soli amici,
mia moglie, io, la figliuola, che lo accompagnammo a Cesena per essere sepolto
nella sua città. Egli, in un giorno lontano mi aveva incoraggiato, ero agli
inizi della carriera cominciai a essere un po' meno diffidente delle mie
possibilità, dovevo però sacrificare ancora molte ore di studio".
Sia Marconi che Bonci indirizzarono poi
il giovane ad Alfredo Martino, direttore e insegnante di canto, che lo avrebbe
aiutato nell'inserimento dell'ambiente teatrale. Abbandonato dunque il maestro
Sbriscia, il Martino, notare le grandi qualità vocali del tenore, lo fece
dunque debuttare nientemeno che nel palco del Costanzi, l'11 maggio 1910,
in Cavalleria
Rusticana. Il debuttante, oltre ad aver sfoggiato voce bellissima, era in grado
di modulare e "cantare", e più d'un recensione riscontrò la mezzavoce
suadente con cui chiudeva taluni scorci della "siciliana": "il
tenore canta la famosa siciliana con arte e sentimento ritraendone degli
effetti meravigliosi. È sempre costretto a bissarla e il pubblico al diapason
dell'entusiasmo nei chiede di continuo il bis. Attore anche coscienzioso e
simpatico dà alla parte di Turiddu una interpretazione indovinatissima.
Veramente grande nel duetto con Santa e immenso nella scena dell'addio. Certo
al De Muro è schiuso il migliore avvenire, le numerose proposte di scrittura
che quotidianamente gli pervengono ne fanno fede". Oppure: "il
battesimo artistico fu solenne e clamoroso. Il De Muro, che affrontava per la
primissima volta il palcoscenico, mostrò di possedere qualità davvero
invidiabili. Ha una bella ed autentica voce di tenore facile simpatica che sale
con grande facilità agli acuti, pieni e squillanti, e possiede un intuito
tecnico notevolissimo. In pubblico mi feci accoglienza entusiastiche specie
dopo la siciliana". Oppure: "ha impressionato l'uditorio fin dalle
prime note della siciliana per la bellezza eccezionale della sua voce limpida,
estesa, di timbro simpatico e squillante negli acuti, ai quali assurge con la
massima facilità e sicurezza del su organo vocale perfettamente tenorile e di
registro unito già educato alle difficile arte del canto e della mezzavoce,
della quale si serve con una maestria non di un debuttante, ma di un provetto
artista". Debutto come meglio non si sarebbe potuto desiderare.
È assai singolare inoltre ravvisare i continui elogi dei recensori sul canto a
mezzavoce di De Muro. La Cavalleria Rusticana nel 1910 aveva sì e no vent'anni
di vita, la vocalità del suo primo interprete, Roberto Stagno, tenore di stile
e gusto romantici, certamente s'era innestata tra le esecuzioni dei primi
quindici anni del '900. Gli stessi primi dischi di Caruso della Cavalleria, in
questo senso, sono emblema di compostezza, vocalità "coperta" e gusto
sorvegliato. Le porte della grande carriera a De Muro si erano ormai
schiuse.
Nemmeno due anni dopo, nel 1912, ebbe luogo alla Scala il debutto di De Muro e
di Isabeau. Ma fu tormentato, e la storia è roba nota. De Muro, incoraggiato da
Tullio Serafin, preparava la parte di Folco allorché, poco tempo prima della
prima, Mascagni volle togliergli la parte perché lo reputava un poco più che
debuttante non all'altezza del compito. Il compositore avrebbe diretto alla
Fenice la stessa sera della Scala la prima veneziana di Isabeau con Italo
Cristalli: Serafin s'impose, protesse De Muro riuscendo a farlo debuttare alla
Scala il 20 gennaio 1912.
L'opera fu un totale insuccesso,
venne definita dalla critica "una delusione", il debutto scaligero di
Bernardo De Muro invece può legittimamente annoverarsi tra i più sensazionali
successi che un cantante abbia conseguito nella storia del teatro lirico. Il
clamore di quella vocalità, nervosa e di forza, strideva in acceso contrasto
con la minutezza della sua persona. Gli acuti, fino al Si naturale, erano
folgoranti, e da qui ebbe origine e ragion d'essere il parallelo con Francesco
Tamagno di taluni cronisti. Si notò anche, nella frenesia dell'azione, la
compostezza della vocalità, forte, certo, ma anche permeata d'una certa nobiltà
"che non eccede mai nell'enfasi volgare", come alcuni ebbero a dire.
Ed è questo il retaggio dello nuovo stile imposto da Caruso, moderno per
l'epoca, più avaro nelle dinamiche ma anche con quel gusto controllato e
misurato che faceva dei tenori di quel periodo il miglior stampo di tenore
drammatico del '900. Altre volte s'è visto come i primi quindici anni del
'900 fossero stati sventurati per la vocalità
delle voci femminili. Con Enrico Caruso, prototipo d'una nuova voce e nuovo
tipo tenorile, per le voci maschili non si può parlare di vero declino. Egli si
fece portatore d'un gusto aggiornato al nuovo repertorio e d'un timbro di voce
veramente baritonale, ombreggiato, sorretto però dalla tecnica dell'antica
scuola, sia per ciò che riguarda la correttezza del passaggio di registro, per
lo squillo trascendentale degli acuti, sia per la rotondità del centro della
voce.
Bernardo De Muro acquisì la lezione e
mantenne i suoi straordinari mezzi lontani da cedimenti di dubbio gusto o che
potessero intaccargli la primiera purezza dell'organo vocale. Egli stesso,
comunque, ammise d'aver studiato sulle incisioni di Titta Ruffo durante il breve
periodo a Santa Cecilia e si può ben immaginare come potesse aver tratto spunto
dai dischi di Caruso che, qualche anno dopo, divenne sua amico e fervido
ammiratore.
Nel 1913, ormai a celebrità acquisita,
De Muro tornò a Roma per una Carmen con Ninì Frascani, ma stavolta deluse le
aspettative e fu oggetto di feroce critica: "benché sembrasse molto
disinvolto in scena, è necessità concludere che egli non è, come cantante,
all'altezza della rinomanza. Ha bella voce, ha quella sua voce calda, maschia
nei centri, squillante negli acuti, facile sempre e spontanea che gli permette
di avventurare si direbbe un po' alla carlona il suo canto; e seppure talvolta
egli la costringe a una manierata espressione di dolcezza, la spinge più
volentieri a delle note spiegate senza regola, abusando di quelle che ha più
facili, forzando centri e gli acuti senza passaggi, e spesso senza neppure
timbrare le note di transizione tanto che sembrano parlate piuttosto che
cantate;...... la voce si porge disuguale nella successione dei registri; e a
tal punto che allargata nei centri e subito dopo spinta negli acuti, ti dà a
volte l'impressione che nel De Muro cantino ora un baritono ora un
tenore". A dire il vero, questa è l'unica recensione veramente negativa
che ho trovato. Può essere che il tenore, oberato dal canto e dagli impegni
onerosi, non fosse in forma in quel periodo. L'"aria del fiore" della
Carmen che incise nel 1912, poco tempo dopo lo straordinario debutto alla
Scala, a detta di Arturo Toscanini è la migliore esecuzione in disco. Difatti
colpiscono parecchio la dolcezza dell'attacco a mezzavoce, il legato, la
nobiltà del timbro e del porgere della frase, e finanche il tentativo di
smorzare il La bemolle acuto de "m'inebriai del caro odor".
Risale al 1913 il primo incontro professionale
tra Bernardo De Muro e Walter Mocchi, impresario teatrale di grande importanza
e marito di Emma Carelli. Mocchi ingaggiò De Muro per la stagione estiva
nell'America Latina. Aveva un bizzarro metodo per pubblicizzare i cantanti,
imponeva l'affissione di manifesti di questo genere: "Bernardo De Muro il
nuovo Caruso", "Giacomo Lauri-Volpi il nuovo Gayarre" o
"Tito Schipa il nuovo Fernando De Lucia"! Sarebbe pleonastico
rammentare il successo strepitoso di quelle stagioni, né certo si può credere
che solamente simili cartelli l'avrebbero determinato. Walter Mocchi ridusse
quasi sul lastrico Emma Carelli e procurò non pochi problemi al Costanzi. È
comunque indubbio che sotto le sue mani siano passati i più importanti cantanti
della prima metà del '900 e Bernardo De Muro l'ebbe sempre in stima e affetto.
Sotto l'egida di Mocchi, De Muro portò a Buenos Aires e Rio de Janeiro Folco
dell'Isabeau e Carmen. La sua voce non mancò di produrre sensazione: "è un
vero tenore, ha un ricco colore di voce, splendidamente virile e facile,
coadiuvata da un temperamento generoso" e anche qui, riusciva a suscitare
entusiasmo anche nei momenti di effusione lirica: "dispone di straordinarî
mezzi vocali prestati l'altra notte alla figura di Folco, cantò con coraggio,
con forza e, laddove necessitasse, anche con grande dolcezza". C'è da
sottolineare la circostanza per la quale il critico de "La Prensa"
rifiutò il parallelo tra De Muro e Tamagno, ammettendo però che De Muro fosse
dotato di potente voce anche molto timbrata.
Le opere sempre drammatiche e i lunghi
episodi di declamato presenti in Isabeau e Carmen costrinsero il tenore a
forzare la voce più del dovuto, e talune sere le prestazioni non furono indenni
da critiche: "sarebbe un peccato se De Muro dovesse incorrere nel medesimo
errore di Julián Biel, detentore, alcuni anni fa, d'una potenza vocale
comparabile con quella del grande Tamagno". Nel ruolo di José, il tenore
si fece valere nelle dolci effusioni del duetto con Micaëla tanto quanto nello
scatto d'impeto drammatico degli ultimi due atti. Era tenore drammatico, così
l'avevano inquadrato anche gli insegnanti, ma era in grado di cantare con
morbidezza e, all'occorrenza, emettere anche la mezzavoce.
Due anni dopo, nel 1915, sempre a Buenos Aires, Enrico Caruso, Hipólito Lázaro
e Bernardo De Muro si ritrovarono nella stessa stagione e il tempiese, per il
successo ottenuto, quasi mise a repentaglio la reputazione di Enrico Caruso, il
quale era stato attaccato dalla stampa: "[De Muro] voce virile, ben timbrata,
estesa, una delle più belle voci tenorili che abbiamo ascoltato in questi
tempi". Con Caruso e Lázaro concorrenti, ben potrebbe dirsi che ci fosse
l'imbarazzo della scelta. Anche in America Latina si fa luce sulla bellezza e
ricchezza timbrica di Bernardo De Muro. Differentemente dalla corda baritonale,
che ancora nel 1915 annoverava baritoni classici aulici con timbri di colore
chiaro, vedasi Giuseppe De Luca, Mario Sammarco o Emilio De Gogorza, l'ambito
della corda tenorile vedeva ormai quasi soppiantata la voce chiara e adamantina
dei tenori in stile romantico in favore della voce mediterranea, calda e
voluttuosa della nuova generazione di tenori, ed è ad essa che certamente
Bernardo De Muro apparteneva.
Il 18 febbraio 1915 si ripresentò a Roma
nella "Fanciulla del West", suo cavallo di battaglia, e le durezze
d'emissione di tre anni prima parvero totalmente scomparse: "gli applausi
si mutarono in ovazioni all'ultimo atto quando egli disse con morbidezza preclara
di voce e invidiabile sicurezza nell'attacco delle note acute la ormai famosa
romanza «ch'ella mi creda». Il De Muro ieri apparve realmente un artista dotato
di qualità superiori".
Il 5 settembre 1915 interruppe la carriera che, come s'è visto procedeva come
non si potesse desiderare, per arruolarsi nell'esercito che entrava nella 1ª
Guerra Mondiale. Nemmeno soldato al fronte mancò d'elargire la voce in numerosi
concerti a scopo di beneficenza, e riprese poi la carriera a guerra terminata,
nel 1918. Il repertorio abituale s'era ristretto a Cavalleria, Carmen, Isabeau,
La Fanciulla del West, Aida, Trovatore e Andrea Chènier. Dello splendido Don
Carlo che fu alla Scala nel 1912, non ne fece più niente, L'Africana eseguita
con sommo successo a Bari nel 1911, non la cantò più. Anche nell'Iris mietette
allori a Buenos Aires nel 1913, ma non fu più ripresa. Era entrato nella
leggenda, a Lima veniva addirittura chiamato per strada con "adios,
fenómeno" e ancora, per buona parte degli anni '20, la voce non accusava
segni reali di declino e stanchezza.
Nel 1920, sempre al Costanzi, fu
nuovamente protagonista trionfante d'uno Chènier passato agli annali delle
cronache, ma un critico rimarcò la crudezza della voce e talune disuguaglianze
percepite otto anni prima: "il pubblico non riusciva più a frenare le
proprie effusioni cosicché tutto il resto del primo atto andò quasi perduto fra
gli applausi e le richieste di bis che continuarono ostinate e imperative sino
al termine dell'ultima scena. Il tenore De Muro ha una voce chiara, violenta, a
volte aspra, incurante, che non sempre si fonde con l'armonia e con i timbri
che l'orchestra distende dinanzi ai suoi passi per sorreggerlo musicalmente; la
sua voce rompe avviva forse l'accordo prestabilito in necessario fino a
scoppiare nella sala con una crudezza volte isolata e inopportuna".
Nel 1924, una cartomante gli predisse un lungo
viaggio nel quale "avrebbe trovato una donna bionda: vi sposerete e avrete
una bambina". Così accadde. Nel viaggio che portava De Muro da Milano a
Lima, il tenore conobbe Helen Wait, soprano, che il Tenore impalmò l'anno
seguente e che gli diede una bambina che nacque nel 1926.
Dei primi sessant'anni della storia del disco,
solo uno scarsissimo numero di cantanti invero riesce con esausitvità e
compiutezza a rendere l'idea della potenza della voce e delle vibrazioni. In
questo senso, i primi nomi che balzano in mente sono quelli di Titta Ruffo e
Francesco Tamagno, seguiti da Enrico Caruso. Io credo che anche la voce di
Bernardo De Muro, in disco, renda bene l'idea del fenomeno di cui fu sempre
oggetto. I suoi acuti, leggendari, in talune incisioni prepotentemente emergono
ancora e l'idea del fenomeno vocale puntualmente ricompare. Come s'è detto
prima, non tutte le incisioni del De Muro hanno diritto d'essere messe nel
medesimo piano, si compirebbe un torto così alla sua memoria e ci si
distaccherebbe dal rigore che l'analisi critico-storica impone. Il La naturale
acuto de "sacerdote, io resto a te!" dell'Aida, passato alla storia
per essere stato eseguito da De Muro tutto d'un fiato da una parte all'altra
del palcoscenico, in disco suona piuttosto piatto. L'incisione dell'aria di sortita
del Don Carlo appare convenzionale nell'espressione. Nelle incisioni del
Trovatore le cose cambiano. La "pira", incisa per la HMV nel 1917
mezzotono sotto, è semplicemente una delle migliori esecuzioni in senso
assoluto. Con le quartine "di forza" scandite e staccate vi è anche
un'insolita fedeltà al testo del compositore, in un epoca in cui un solo tenore
su dieci eseguiva le semicrome come da Verdi scritto. I Si naturali acuti
emergono con tale lucentezza e squillo che da soli valgono a giustificarne il
mito. L'"ah sì ben mio", inciso nel 1928 col procedimento elettrico,
è poi un disco per certi versi stupefacente. Prontamente varî lessici
forniscono indizî sul declino della voce di De Muro in età ancora giovanile.
Ebbene, egli, a quarantasette anni, lascia in disco una delle più impervie arie
verdiane con voce d'intatta bellezza e imperturbabile squillo. Un simile tenore
non è da reputarsi vocalmente declinante, assolutamente. A imporsi
nell'esecuzione è pure l'ampiezza del declamato, sorretto da dizione
chiarissima e penetrante e conferendo all'aria una nobiltà del tutto
sconosciuta ai tenori cosiddetti drammatici delle epoche successive, tolti i
soli Franco Corelli e Carlo Bergonzi dei primi anni '60 dello scorso secolo. È
questione di indole, sì, ma soprattutto questione tecnica. De Muro arrotonda il
suono, è capace di oscurarlo e coprirlo a dovere anche nei centri. Il registro
medio della voce, è notorio, è quello in certo senso maggiormente bistrattato
dai cantanti veristi d'ogni epoca. Gonfiature, aperture e schiacciamenti non
erano avulsi nemmeno tra i grandi tenori dell'epoca di De Muro. Eppure egli
esegue l'aria con un gusto controllato e stile sobrio. È lecito ricordare come
Isabeau, dopo l'iniziale insuccesso scaligero, si fosse sorretta per anni
grazie a Bernardo De Muro. Il forte dissapore iniziale fu sopito dai due
personaggi con una lunga e fruttuosa collaborazione: Mascagni stesso diresse le
recite d'addio del Tenore in Isabeau, alle Terme di Caracalla, nel luglio del
1938. Le incisioni che De Muro realizzò di Isabeau sono una pietra di paragone
per tutti i cantanti veristi. Il tenore scandisce e declama con fierezza senza
scadere nell'accento convenzionale e smisurato. Emette con forza brutale taluni
acuti, retaggio questo dello stile dei tenori stentorei d'800, ma i suoi acuti
sono sempre governati da brillantezza e squillo. Non si sente mai urlare né
sbracare i suoni.
Il discorso potrebbe estendersi ad altre
opere veriste, tipo Fanciulla del West, della quale sono da preferire le incisioni
elettriche. Qui, la lucentezza nonché la scansione del declamato in frasi come
"una masnada di banditi, la strada" si giovano d'un piglio e d'uno
scatto che nessun altro tenore ha raggiunto dopo. Anche i portentosi fiati, ai
tempi dell'Aida in America Latina addirittura sensazionali per durata e
resistenza, nelle incisioni elettriche della Fanciulla del West destano
impressione. Così, di pari passo, anche l'"improvviso" dell'Andrea
Chènier. L'aria dell'Africana è poi una vera perla. Incisa nel 1912, porta con
sé i bagliori con cui la eseguivano i tenori romantici. Sembra che
Gatti-Casazza avesse offerto a De Muro il debutto al Metropolitan con Otello,
ma è storia ben nota riguardo le ragioni che portarono il Tenore a declinare
l'invito. Le sue incisioni dei brani dell'Otello rivelano un cantante nobile e
un interprete di riferimento. Il "Dio, mi potevi, scagliar tutti i
mali" è eseguito con notevole partecipazione emotiva e il celebre
"esultate" di De Muro lascia udire come un secolo addietro i tenori
coprissero a dovere il suono nel Fa naturale dell'"esultate!". Il
suono nobile ha luogo sempre con l'adeguato oscuramento prima del
"passaggio di registro". Altrimenti, non si potrebbe parlare di
"suono nobile".
Si era ritirato nel 1938 e sia in America che
Italia, nei varî soggiorni, si prodigò nell'insegnamento, talora anche
gratuitamente o addirittura aiutando economicamente gli allievi con maggiori
difficoltà. Ormai da tempo infermo e bloccato su un letto, a Roma, trovò la
forza di reagire e la volontà di lasciare un'intervista per "Sorella
Radio" poco prima di morire. Lo spirito è quello d'un tempo ma la voce è
stanca e un poco malferma. Sapeva naturalmente ormai di doversi accomiatare
definitivamente da tutti. Era nato povero ma la vita gli aveva dato tutto ciò
che bramò. Se ne andò il 14 luglio 1955.