martedì 19 febbraio 2019

L'aratro

L’aratro è sicuramente un’opera dell’ingegno umano fra le più antiche e fra le più degne di rispetto e osservanza; dal modello più semplice ci ha accompagnato per secoli, fino a quelli enormi e attuali che vediamo, sempre più di rado, sfrecciare tra le vie ingombre di veloci motorini e vetture varie e variopinte.

La storia antica si è fregiata, per così dire, di aratri in legno, tratti da un ramo contorto benché facile all’usura ma capace di tracciare un solco sul terreno ammorbidito dalle piogge autunnali e coprirvi i semi appena gettati. L’uomo, nel tempo, lo ha reso sempre più idoneo allo scopo e più duraturo. Appuntito e a base triangolare in modo da smuovere più terra e rivoltarla affinché il seme fosse più protetto e più a contatto della terra umida, facilitandone la germinazione in condizioni appropriate; vi ha, in seguito, protetto la parte appuntita calzandola con il vomere (l’albata), apposita camicia metallica, resistente all’usura e al tempo e conservando in legno le parti meno direttamente esposte all’impatto con il terreno.

Questo mezzo umile e semplice ha accompagnato per millenni i nostri predecessori. In molte aree del mondo fa ancora un tutt’uno con i contadini di oggi non ancora detronizzati e cancellati da colonizzatori-speculatori armati di rombanti mezzi capaci di travolgere la faticosa ma profonda saggezza contadina nel volgere di qualche stagione.

Ma più che alle sorprese economico-sociali che siamo soliti subire mi piace tornare all’aratro di un tempo, maneggevole e leggero, che quasi grattava o accarezzava la terra come per solleticarla ad essere generosa e prolifica, quasi per chiederle tante spighe turgide e curve per ogni chicco affidatole con trepida attesa. Si, questo mi piace pensare e scrivere: pensare alla terra appena arata, fumante al mattino novembrino come le narici dei buoi che traevano a passo lento quel semplice arnese che rivoltava la terra umida, scura e tiepida. Mi piace ricordare gli uccelli che a frotte si posavano sulle zolle sperando nell’incontro con qualche verme appena detronizzato o con  briciola di  tubero da poco messa a nudo. L’uso dell’aratro, questo e più di questo era capace di mostrare, suscitando fascino sempre nuovo.

L’aratro in legno ha piano piano ceduto il passo a quelli in ferro in certe aree meno di un secolo fà, ma credo che il ricordo non debba cedere il passo a nessuna invenzione dell’oggi e del domani, comunque ambita ed importante. La sua figura semplice e smaliziata, il suo servizio lungo e sincero sono stati la fiducia di infinite generazioni e per questo lo vogliamo ricordare oggi, se non altro nelle sue fattezze.


In Gallura gli aratri in legno più comuni erano due: l’aratro corso (aratu cossu) e l’aratro sardo (aratu saldu). Il primo, forse un po’ più rozzo aveva più parti aggiunte, appariva più pesante e più arcaico mentre il secondo era più sobrio, compatto, più leggero e risolto con  meno aggiunte. Le immagini delle miniature possono persuadere più di ogni descrizione lunga e noiosa.

Paolo Demuru

Esemplare di aratro corso (aratu cossu)

Esemplare di aratro sardo (aratu saldu)

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