giovedì 12 ottobre 2017

Storie di api e di alveari

Alveari, 1986

Ricordo di aver trascorso un’ infanzia felice per quanto attiene alla salute: lungi da raffreddori, influenze o altri disturbi tali da ridurre il mio quotidiano vivere a contatto con la natura, le piante, l’orto, il torrente gli animali del cortile e le attività a ciò attinenti ed, infine, i miei trastulli personali fatti di invenzioni e di prove. A volte credo di avere ancora dentro di me qualcosa di quei momenti per me importanti ed utili, di quelle esplorazioni, di quelle scoperte. Costruire giocattoli e manipolare arnesi erano il mio ideale passatempo nei momenti in cui non dovevo accudire ad altre incombenze che mi venivano chieste o richieste nel lento trascorrere di quegli anni.

Accompagnavo mia madre, una delle tante volte, nell’area dove lei custodiva e curava gli alveari con severa premura e con tanta maestria e disinvoltura, tale da evitare spesso misure precauzionali particolari durante l’approccio con le api. Queste non sempre erano di umore generoso e compiacenti nei confronti degli interventi dell’uomo. Sono esseri nobili e, soprattutto laboriosi, tanto da non sopportare facilmente intralci nelle loro intenzioni precise e profonde durante la loro vita breve ed intensa. Sono severamente organizzate in caste, in strati sociali con possibilità di salire dalle condizioni più infime, diremmo, a quelle più elevate. In pratica si comincia da addette alle pulizie, per divenire cercatrici di miele affrontando le avversità delle stagioni, logorandosi di operosità, coprendosi di onore e fatiche che accorciano, a loro insaputa, la loro stessa esistenza. Esse possono pure accedere a divenire fuchi o regine per meriti o scelte a noi piuttosto sconosciute e attendere alla riproduzione di nuove famiglie, nuove generazioni. Il vivere delle api è affascinante e incorruttibile, prodigo e virtuoso. Forse anche tra loro pullulano ingiustizia e tradimento ma, a mio modesto avviso, l’innocenza e la sincerità hanno la meglio. Il loro costume è, comunque, invariato da millenni; la loro battaglia non credo che sia per accaparrarsi assurde prebende ma quel titolo di nobiltà individuale a cui l’uomo spesso non aspira perché vittima di ben più infima ricchezza.

Proprio da queste maestre di vita seguivo mia madre una mattina tra aprile e maggio di tanti anni fa, forte d’innocenza, difeso dall’ingenuità e, non meno, dal rispetto e dai riguardi che ero abituato nutrire nei loro confronti ... Sotto le sughere trovammo, mentre i raggi del sole vi penetravano obliqui, uno sciame in attesa e in frenetica ricerca di nuova dimora. Dalla loro attività mia madre capì subito che le api erano alla ricerca di una sistemazione definitiva da qualche giorno e, pertanto, manifestavano chiaramente un certo nervosismo. Cercammo un alveare in sughero disponibile che durante i mesi precedenti era stato  risistemato e mia madre vi strofinò all’interno dei rami di lavanda per far sì che il bell’aroma potesse entrare nelle grazie delle dorate inquiline e loro prendervi posto volentieri e facilmente. Cominciarono ad introdursi al suono ritmico di un legno percosso sul coperchi dell’alveare rustico. Una sorta di marcia trionfale per un esercito di quattro o seimila insetti nervosi ed impazienti che si apprestava alla nuova casa ma che in parte volava non convinto attorno all’area delle operazioni. Mi avvicinai un po’ troppo e forse intercettai le effusioni di alcune che, con l’ausilio di altre si avventarono sulle mie parti scoperte con i loro pungiglioni affilati. Mi punsero in tante e mia madre dovette sospendere il delicato impegno per venirmi in aiuto e spingermi verso l’ombra con l’ausilio di una torcia di stoffa accesa affinché il fumo le facesse desistere dalla contesa.

Finita l’operazione di raccolta dello sciame e posizionato in fretta l’alveare nell’apposito spiazzo sotto la sughera, rientrammo con premura e fatica a casa. Mia madre mi lavò col succo di limone nelle parti punte, mi mise a letto chiedendomi di fare di tutto per rilassarmi e dormire e tutto sarebbe tornato come prima. Chiusi gli occhi e mi coprii perché un freddo strano mi pervase. Sentivo le parti punte leggermente doloranti, mentre un po’ di sonno mi sembrava sopraggiungere e un sogno lungo e confuso mi accompagnò per alcune ore. Di pomeriggio mia madre mi destò e mi propose di mangiare qualcosa: una bella fetta di pane con miele! Mangiai volentieri e con appetito e cercai di raccontare il lungo e confuso sogno, che a tratti, non riuscivo proprio a ricordare. –Hai avuto un po’ di febbre -commentò mia madre- è per questo che sognavi-
La convalescenza durò fino alla fine della dolce merenda poi tornai ai miei trastulli e, in seguito, ad aiutare a custodire gli alveari ed estrarne il nettare dolce e terapeutico.
Io, per tanti anni ancora rimasi della convinzione che la febbre era un sogno lungo, penoso, talora ripetitivo, ma difficile da ricordare.
Paolo Demuru


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