A sinistra il
poeta tempiese Pasquale Ciboddo,
al
centro il monumento al cantore Luigino Cossu,
a destra Paolo Demuru
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Circa un anno fa essendo
per un giorno a Tempio pensai di invitare l’amico poeta e scrittore Pasquale
Ciboddo, cantore della natura, a trascorrere un pomeriggio nel mio “Museo
Tematico all’Aperto” a Balascia in cerca di diversivo e forse di qualche
immaginaria Befana persasi là, tra lecci e graniti.
La nostra passeggiata si
svolse nelle solite piste comode e facili da superare anche nei punti di
maggiore pendenza.
Una delle tante soste la
facemmo presso il monumento a Luigino Cossu, re e maestro del bel canto
gallurese; ricordammo la sua famosa disisperata
e ne ripassammo il testo. Ziu Luiginu
ci fissava con il suo sguardo di basalto e il suo riso malizioso, forse un po’
compiaciuto per avergli concesso un angolo sottovento rivolto verso La Trinitai da dove si era allontanato
giovinetto per destinarsi a vivere in queste contrade. Qui coltivò la vita
contadina e il canto spesso ricevendo i suoi amici, anch’essi dall’ugola
dorata: Antonio Stefano Demuru e Mario Scano, confrontandosi spesso le
rispettive forze canore. Qui anche noi confrontavamo i nostri commenti su
questi personaggi, ormai del passato ma di cui ci piace tenerne vivo il ricordo,
soprattutto delle loro virtù in materia d’arte canora. Quantomeno si erano
spesi per esibire la loro dote e per lasciare a noi un esempio di passione che ci onoriamo di ricevere e
trasmettere.
Mentre trattavamo di
queste cose ci colse una certa nebbia che ci avvolse profondamente isolandoci
da tutto, perfino dal monumento che avevamo a pochi passi. Tra quella nuvola
leggera e impalpabile sentivamo soltanto un leggero soffio di vento fischiare
sulle cime alte dei pini in modo armonico e delicato e poi... una voce indistinta
e soave che cantava deliziosamente questo sonetto. Non so quale dote io stesso debba
ringraziare per essere riuscito a tenerlo a mente cosi chiaro da poterlo
trascrivere integralmente...
Tu chi li sireni abbagli ‘n fundu d’ea
e di lu mari rifretti li spiragli
sei beddha tantu candu ridi e cagli
chi t’ama cali d’amà no n’à videa.
Intantu specchj illu celi profundu
la biddhesa toia e li sprandori,
regina di mari di tant’amori,
di te già poni dì biddhes’amena;
di culori sei spalta in tarra e celi,
e ni sei di la me ‘ita la cumpagna,
tristu pal cal’anda spaglendi veli
e pàldi di gudinni la cuccagna.
Pàldi gudinni lu meddhu trisoru
chi gagna ‘n valori la prata e l’oru.
Non si tratta di testo
usato né conosciuto e ogni riferimento a vecchie opere è puramente casuale. La
voce del cantore non era nota né era
chiaramente o in qualche misura
riconducibile ad alcuno conosciuto. Potremo ricondurla a qualcuno, non più tra
noi, che pur avendone il bel dono non l’ha mai praticato o esibito in vita e ne
ha voluto far dono proprio a me e all’amico in un momento di particolare
trasporto? E il testo, a chi poteva essere rivolto? Ad una bella addormentata
tra i lecci del “Museo” su un letto di lavanda e coperta di viole? La donna con
la quale qualcuno trascorreva la vita e ne decantava grazie e virtù? La stessa
natura incontaminata che qui abbraccia ogni cosa, persino il visitatore
virtuoso che con garbo si appresta a mirarla chinando quasi il capo in segno di
riverenza e rispetto? O la Madre di tutte le madri, che dalla chiostra granitica protegge quest’area,
come dono inalienabile alla vita? Beh, le domande sono tante
e per me rispondere ad una sarebbe riduttivo per le altre; lascio la scelta al
solerte lettore, che sono certo, sarà più acuto di me in questo caso.
Intanto che il canto si
allontanava e la nebbia si diradava, pensavamo di aver percorso un lungo tratto
di strada rapiti dalla profonda melodia; eravamo ancora a pochi passi da ziu Luiginu che non aveva cambiato per
nulla la sua espressione. Io e l’amico, tornati sulla terra, scuotemmo entrambi
il capo e prendemmo la via dell’uscita parlando d’altro che qui non tratto. E
la Befana che in cuor nostro ipotizzavamo di incontrare? Ebbene, l‘avevamo
proprio incontrata: era sicuramente in quella musica incantata che ci giungeva
dalla cima dei pini, in quei versi accorati, nel verde dei lecci, nel grigio
millenario dei graniti e, accolta, la portavamo con noi in un antro segreto del
cuore.
Paolo Demuru
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