L’aratro è sicuramente un’opera
dell’ingegno umano fra le più antiche e fra le più degne di rispetto e
osservanza; dal modello più semplice ci ha accompagnato per secoli, fino a
quelli enormi e attuali che vediamo, sempre più di rado, sfrecciare tra le vie
ingombre di veloci motorini e vetture varie e variopinte.
La storia antica si è fregiata, per così
dire, di aratri in legno, tratti da un ramo contorto benché facile all’usura ma
capace di tracciare un solco sul terreno ammorbidito dalle piogge autunnali e
coprirvi i semi appena gettati. L’uomo, nel tempo, lo ha reso sempre più idoneo
allo scopo e più duraturo. Appuntito e a base triangolare in modo da smuovere
più terra e rivoltarla affinché il seme fosse più protetto e più a contatto
della terra umida, facilitandone la germinazione in condizioni appropriate; vi
ha, in seguito, protetto la parte appuntita calzandola con il vomere (l’albata), apposita camicia metallica,
resistente all’usura e al tempo e conservando in legno le parti meno
direttamente esposte all’impatto con il terreno.
Questo mezzo umile e
semplice ha accompagnato per millenni i nostri predecessori. In molte aree del
mondo fa ancora un tutt’uno con i contadini di oggi non ancora detronizzati e
cancellati da colonizzatori-speculatori armati di rombanti mezzi capaci di travolgere
la faticosa ma profonda saggezza contadina nel volgere di qualche stagione.
Ma più che alle sorprese
economico-sociali che siamo soliti subire mi piace tornare all’aratro di un
tempo, maneggevole e leggero, che quasi grattava o accarezzava la terra come
per solleticarla ad essere generosa e prolifica, quasi per chiederle tante
spighe turgide e curve per ogni chicco affidatole con trepida attesa. Si,
questo mi piace pensare e scrivere: pensare alla terra appena arata, fumante al
mattino novembrino come le narici dei buoi che traevano a passo lento quel
semplice arnese che rivoltava la terra umida, scura e tiepida. Mi piace
ricordare gli uccelli che a frotte si posavano sulle zolle sperando
nell’incontro con qualche verme appena detronizzato o con briciola di tubero da poco messa a nudo. L’uso dell’aratro,
questo e più di questo era capace di mostrare, suscitando fascino sempre nuovo.
L’aratro in legno ha piano piano ceduto
il passo a quelli in ferro in certe aree meno di un secolo fà, ma credo che il
ricordo non debba cedere il passo a nessuna invenzione dell’oggi e del domani,
comunque ambita ed importante. La sua figura semplice e smaliziata, il suo
servizio lungo e sincero sono stati la fiducia di infinite generazioni e per
questo lo vogliamo ricordare oggi, se non altro nelle sue fattezze.
In Gallura gli aratri in
legno più comuni erano due: l’aratro corso (aratu
cossu) e l’aratro sardo (aratu saldu).
Il primo, forse un po’ più rozzo aveva più parti aggiunte, appariva più pesante
e più arcaico mentre il secondo era più sobrio, compatto, più leggero e risolto
con meno aggiunte. Le immagini delle
miniature possono persuadere più di ogni descrizione lunga e noiosa.
Paolo Demuru
Esemplare di aratro corso (aratu cossu)
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Esemplare di aratro sardo (aratu saldu)
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