"Focolare", colori a cera su cartoncino, Paolo Demuru, 2016 |
Una
volta il fuoco non veniva acceso nel caminetto, sistemato in una parete o
all’angolo della stanza ma bensì al centro della camera; il fumo saliva per
naturale andare verso il tetto e attraverso le canne o listelli in legno e poi le tegole
guadagnava assoluta libertà consegnandosi ai venti per farsi disperdere
nell’atmosfera.
Era
questo il focolare (Lu Fuchili), con
tutti i suoi attributi e parvenze di affetto e d’unione, d’ordine e di
meditazione, di ristoro, di conforto o di complotto. Lu fuchili accoglieva e rappresentava la giovane coppia, la sua
prole, i vecchi, la saggezza di chi aveva la barba bianca e l’irruenza dei
giovani. Lu fuchili era la casa, la
famiglia. Era il luogo dove il lavoratore al rientro dalla dura giornata
riponeva tutta la sua stanchezza, accolto dalle premure della consorte, dove il
bambino nella culla emetteva i primi
vagiti e accennava le risatine prima del sonno dopo la poppata. Era il luogo
della cottura del cibo e del desinare sul tavolo accanto (ho scritto desinare
perché il pasto più abbondante non era il pranzo, spesso consumato in modo
frugale nella campagna, bensì la cena); vi si arrostiva carne e castagne e
volentieri si consumava un bicchiere di vino. Soprattutto si dialogava, si
programmava e si spettegolava. Si raccontava di sè e degli altri in modo
tragico o ironico a seconda della convenienza o dell’umore di coloro che
attorniavano le braci arancioni o la fiamma ballerina sul ceppo di lentischio o
di erica. Nessuno presentava le spalle ma tutti avevano la possibilità di
guardarsi in faccia l’un l’altro al seppur fioco barlume che proveniva dal
centro.
Quando
l’argomento diveniva serio, e per varie ragioni non doveva essere appreso dai
piccoli, gli adulti e gli anziani usavano un linguaggio particolare solo da
loro conosciuto, chiamato l’uspu, che spesso
consisteva nel collocare all’interno dei nomi comuni una sillaba aggiuntiva
tale da trasformarli e renderli incomprensibili; consisteva nel non pronunciare
direttamente il nome di qualcuno ma fermarsi a questo (chistu), quello (chiddhu), il tale (cutalu, lu tali), quello della favola (fulanu o fulana). L’ambiente era unico e la decenza era d’obbligo. La
privatezza non era sancita da articoli ma era osservata per usanza e costume.
Nelle
lunghe notti d’inverno, sotto la musica della pioggia, si recitavano versi, si
cantava qualche canzone amorosa o nostalgica e quando l’urlo del vento o il
fragore del temporale in arrivo si mostravano impetuosi, costringendo allo
spegnimento la fiammella sinuosa, si portavano a letto i bimbi; si coprivano
abbondantemente e gli adulti si facevano ancora più presso i carboni accesi
sotto la cenere e in attesa che tutto tornasse a gioire bisbigliavano qualche
preghiera.
Paolo
Demuru
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