"Anda, Pissamentu", acquerello su carta, Paolo Demuru, 2016 |
Ieri sera, dopo cena, non avevo voglia di leggere
e neppure di scrivere e mi sono dedicato ad ascoltare musica; ho divagato dalle
canzonette fino alla musica classica. Ho riascoltato dal Nabucco quel bel coro
del 1842, “Va, pensiero”… un canto di esuli di tanto tempo fa.
Il testo supera
di poco il secolo e mezzo, i fatti che lo hanno ispirato, invece, si sono
rinnovati, da tempo immemorabile, continuamente fino a noi, un po’ esuli, un
po’ oppressi, un po’ sconfitti. Come il poeta Solera potrei anch’io, in un
momento di raccoglimento nel versante dei ricordi invitare, se non altro, il
mio pensiero, a vagare, o meglio, a posarsi sulle colline dove profumate spirano
le brezze libere e leggere del luogo natio.
Potrei invitarlo anche a salutare i
siti a me più cari, di cui conservo maggiormente immutato ricordo, o quelle
realtà che mi sono state vicine e ormai sottratte o scomparse: non potrei fare
a meno di accorgermi, in tal caso, quanto ho perso per quel che ho guadagnato e
le rimembranze che emergono nel mio petto non sono altro che il racconto del
passato. Trarrei dalle tragedie solo dolore se non mi venisse incontro una tal
forza a dare senso alle mie fatiche, al mio disagio interiore.
Meditando
su quel canto ottocentesco mi sono chiesto come avrebbe suonato se lo avessi
voluto tradurre nella mia lingua d’origine, in Gallurese (in Cossu)…
Anda
pissamentu subbr’ali ‘nduriati
e and’e
posati in settil’e coddhi,
in undi
cantani libar’e moddhi
li
frini dulci di lu locu natiu.
Di lu
riu li so’ ribbi saluta,
di li
so’ licci li trunchi caduti;
oh me’
tarra si beddha ë palduta,
oh
l’ammentu si caru ë fatali.
E sonu
beddhu di l’antichi fati
palchì
mutu da l’alburu pendi;
li
mimorii ‘llu pettu n’accendi
e ci
mintoi d’un tempu passatu.
O solu
da l’usciati ghjà fatti
ni trai
sonu di crudu lamentu,
o ti
spiri lu Signori unu ‘ntentu
chi
n’infundia ‘llu patini viltuti.
Chissà
se qualche futuro Verdi intingerà mai
spartiti per le mie quartine e mai orchestre strapperanno lunghi applausi in
teatri affollati… ma che importa.
Gli applausi sono pur sempre il fragore, il
suono di mani che manifestano il giusto plauso a un’opera ben riuscita, la
musica il suono degli strumenti accordati a modo per vestire d’incanto talora
versi struggenti, la poesia resta comunque la musica del cuore, la danza della
verità, la voce dello spirito.
Paolo
Demuru
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