La trota del fiume, colori a cera su cartoncino, Paolo Demuru, 2016 |
Osservando dai punti panoramici che s’incontrano
sul versante est e sud della nostra area, scorgiamo in buona parte la vallata,
scavata durante la sua lunga vita da lu
Rìigghjolu (fiumiciattolo).
Esso ha sorgente presso il Passo del Limbara
proprio sulla strada provinciale Oschiri-Tempio, da dove, seguendo il pendio più o meno accentuato che comunque degrada man mano che si avvicina al lago
(Coghinas) dove sfocia, il torrentello ha dato motivo all’insediamento dei miei
antenati già da oltre due secoli e mezzo, ed ad altre famiglie che vi si sono aggiunte
alla fine dell’ottocento.
Ha donato generosamente le sue acque limpide che
faceva scorrere tra due filari di ontani per dissetare, innaffiare, lavare,
quando la calura estiva imponeva i suoi rigori.
Nei periodi di forti piogge ha mostrato tutta
la sua irruenza nelle acque torbide e talora tanto impetuose da scoraggiare ogni
tentativo di guado o d’attraversamento, poiché non disdegnava appropriarsi dei
modesti ponti in legno predisposti per
necessario disimpegno.
È stato provvidenziale nel suo dare ma per questo, tra
gli uomini, non sono mancate rivalità e motivi di scontro, ma ha fatto anche girare
macine di mulini per oltre mezzo secolo e ha favorito il rinnovamento di
parecchie generazioni.
Ha accolto le fatiche di tante massaie e le aspettative
di quanti vi hanno coltivato orti e piante lungo il suo breve corso.
Lu Rìighjolu era prodigo non solo per quanto ho semplicemente
riferito ma anche per un’altra dote millenaria, fino a quando non ne è stato
spogliato, suo e nostro malgrado. Nelle sue acque, fresche d’estate perché all’ombra degli ontani e altrettanto tiepide d’inverno per le
stesse ragioni, vi guizzavano trote e anguille.
Ricordo quando osservavo le trote, a
volte solitarie e a volte in branco, pascolare lente e tranquille nell’orlo
delle piscine ma pronte a scomparire sotto i graniti o tra i limi verdi che
ricoprivano parte del letto.
Grandi e piccole, sempre maculate di nero e di
rosso, potevano essere pescate a mano, se abili, con ami provvisti di adeguata
esca o sparando una pallottola di fucile vicino alla testa. In questo caso lo
spostamento dell’acqua tramortiva il pesce che facilmente poteva essere
raccolto quando la corrente stessa lo trascinava a portata di mano.
Per le
anguille (l’anghiddhi) bisognava
essere ancora più abili e fare uso di fiocine (li fruscini) ben provviste di fendenti acuminati. Poteva farsi
ricorso all’uso di nasse (sorta di imbuti
costruiti con giunchi o vimini) collocate nelle strettoie e nei punti
dove l’acqua acquistava maggior velocità.
Negli anni cinquanta, per
un prelievo sempre più insensato che non teneva più conto del fabbisogno reale
ma del vago apparire, della scommessa o
del confronto e l’uso di particolari marchingegni di cattura (corrente
elettrica, o sostanze aggressive come lue o calce), le trote sono andate
scomparendo.
I mezzi usati, oltre a facilitare la cattura del pesce grosso,
distruggevano gli avannotti (li ciarretti)
e, non ultimo, le prede, per cui neanche l’impianto costruito sul Limbara per
allevare uova ed avannotti da immettere nel fiume vi ha portato rimedio e le
trote sono scomparse da lu Rìigghjolu.
Perfino le sue portate d’acqua sono diminuite e in certi periodi dell’anno
quasi non scorre più. Avvicinandosi alle sue rive spesso non si ode più il suo
rumorio ritmico e armonioso che invitava, tanti anni fa anche la mia gattina
esperta di pesca. Tante volte l’abbiamo sentita miagolare, presso l’uscio e,
affacciandoci, l’abbiamo vista ancora bagnata in parte e con in bocca insolita
preda: una trota, appena pescata.
Il torrentello aveva un
legame di affetto con molti valligiani e questi ultimi con esso: avvicinarsi al fiume
era quasi un rito e perfino Bernardo De Muro, (Birraldinu, lu Tinori il
cui padre era nato presso le sue rive) durante le sue permanenze tra i parenti,
non perdeva l’occasione di dedicare un pomeriggio a cercare di pescare trote
nelle sue acque.
Questo ed altro è stato lu Rìigghjolu finché gli uomini hanno
manifestato buon senso e fatto ragionevole uso
dei doni insostituibili che Madre Natura ha gratuitamente offerto
sul suo provvido piatto d’argento.
Paolo Demuru
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