Paolo Demuru "Notti d'austu", gessetto su cartoncino, 2016 |
Anche
in queste contrade i nostri antenati, quelli che veramente erano dediti al
lavoro, nel mese d’agosto godevano giorni di meritato riposo. La raccolta del
grano (la ‘ncugna) era finita, il
bestiame veniva poco accudito e il
solleone d’agosto evitato, o trasferendosi in aree più fresche, vicino a
sorgenti o sotto i tetti delle case, dai muri spessi.
Per
loro le ore di riposo erano sovente quelle del tramonto o dopo cena, quando
erano soliti sedersi all’esterno delle case, presso l’uscio. Potevano
partecipare più famiglie se il villaggio era composto da diverse anime, o un
solo nucleo se si trattava di case singole.
Non
si distraevano con il telefonino e tanto meno impazzivano dietro i Pokemon ma
argomenti da trattare ne avevano talmente tanti che spaziavano dalle fiabe (li voli) ai pettegolezzi (contarelli o narelli), dalle critiche
sentite, inventate o fondate che fossero, alle semplici scommesse. Osservare
più stelle cadenti (stelli mutendi) degli
altri poteva essere motivo di orgoglio, prima che si levasse la luna e con il
suo chiarore nascondere l’incanto, mentre i più piccoli erano colpiti deal
richiamo delle volpi o dal canto della civetta o dal volo improvviso di qualche
rapace notturno bianco o grigio che fosse, o ancora dal passaggio scombinato
dei pipistrelli (passoritolti) nelle
loro esibizioni di caccia.
Ma
in tutta questa assenza di rumori procurati, inventati, esagerati, il responso
della natura si faceva apprezzare nella sua grande serenità e soprattutto si
faceva avvolgere dalla luce della luna, dal suo sorgere dietro il monte fino a
quando si apprestava a scomparire dietro le tegole del tetto alle spalle.
A
dar motivo di vaghe discussioni era spesso proprio la luna con la sua forma, il
suo candore, il suo volto di donna: vecchia o attempata che apparisse, giovane
amante o matura intrigante, donatrice d’amore o rubacuori, il suo accennato sorriso non era mai privo di un
certo mistero. I bambini, i giovani, gli adulti, nessuno poteva dirsi escluso
da un attimo di stupore di fronte quell’astro muto e brillante che accompagnava
in modo lieve la dolce veglia dopo il solleone o precedeva il sonno beato e
ristoratore di tante fatiche.
Quando
penso a quanti figlioli ha fatto innamorare, a quanti poeti ha indotto a
scrivere, a quanti tenori l’hanno cantata, a quanti bimbi l’hanno sognata quasi
mi commuovo e un senso di rispetto e gelosia nei suoi confronti mi pervade. Perché
siamo andati fin lassù a posare sopra le sue immobili polveri i nostri rozzi
scarponi? Volevamo forse più da vicino cogliere i suoi misteri, il suo sorriso,
la sua serenità o il suo fascino? Potevamo benissimo e con meno spese
continuarlo a fare dalla nostra terra nei meriggio d’agosto, subito dopo cena;
potevamo farlo, dico, ma ci siamo trovati nella sorpresa di inciampare dietro
un Pokemon mentre la bella luna, sempre senz’aggiungersi una ruga se non quella
lasciatagli dall’astronauta, ci sfugge sorridente ormai tra i nuovi tetti.
Cantami o luna vestita
d’argento
del tuo lento ed immutato
vagare,
cantami ‘l giusto, non
tristo spoliare
che dalla terra ti giunge riflesso,
non privarmi d’un tepido
amplesso
finché ti guardo ‘l riso
da quaggiù.
Stattene, fin che puoi,
sola lassù
evitando le orme degli
arditi;
ti pianteranno grane e
ferraglie,
ti turberanno la serena
pace
e tutto quello che in te
scorre e tace,
come sono soliti fare in
terra:
in esecranda guerra e ‘n
tristo pianto,
là non alberga naturale incanto.
Paolo Demuru
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