Più insolito il termine o l’oggetto che richiama? Vediamo di dire qualcosa in
proposito.
Intanto cominciamo con la
materia che lo compone. Si tratta di una parte di corteccia della quercia da sughero o
semplicemente sughera, pianta piuttosto frequente in Sardegna e nelle aree
mediterranee dal livello del mare ai sei settecento metri.
Spesso il tronco di quest’albero
pluricentenario può subire una crescita anomala imputabile a malformazione
congenita o a intervento poco oculato durante la scorzatura. In ogni caso la
quercia tende a coprire con la sua corteccia sugherifera l’escrescenza fibrosa
del tronco stesso formando una sorta di parte concava nella lastra di sughero
scorzato. Era in uso, in queste aree della Gallura ma non solo, prelevare la
corteccia concava per vari usi, e questo ben prima che la corteccia sugherifera
avesse conseguito gli sviluppi
commerciali degli ultimi due secoli.
Fra gli altri usi, vari e
degni di minor considerazione, me ne viene in mente uno che per lungo tempo è
stato in voga . Nelle sorgenti con acqua considerata di particolare pregio e maggiormente
frequentate, si trovava sovente l’oggetto concavo appena descritto, rifinito
con taglienti coltellini, di cui i pastori andavano sempre provvisti e, a volte
con inciso l’anno di preparazione. Detto oggetto era identificato con il
termine, dall’etimologia incerta e intraducibile, di Nappeddha; ma quale uso che
se ne faceva? Semplicemente cogliere dalla sorgente acqua per bere.
Il passante o il
frequentatore della sorgente la trovava spesso poggiata in un canto laterale
con la parte concava verso il basso e pronta all’uso. Pur nell’ambiente umido
dove trovava alloggio era destinata a durare diversi anni e appena era
piuttosto logora veniva tacitamente e sorprendentemente rinnovata dopo aver
dissetato varie persone in tante stagioni. Sicuramente oggi tale prestazione
sarebbe in odore di poca igienicità ma, in passato, il disimpegno era tale che
per renderla alquanto igienica bastava risciacquarla con acqua corrente e
dissetarsi in tutta tranquillità.
Oggi è raro incontrarne
ancora. La sua funzione è demandata a qualche bicchiere in plastica bianco e
leggero, infilato su di un ramo o capovolto presso lo sgorgatoio; non diverso
da quanti altri ne possiamo notare in ogni dove abbandonati, perfetto segno di
inciviltà da parte di chi lo abbandona e di irriverenza nei confronti degli
altri e dell’ambiente.
L’aspetto degli odierni bicchieri messi a disposizione
presso le fontane non ci dispone certo al loro uso e il senso di rifiuto sorge
spontaneo. Non credo, però, che il nostro ribrezzo sia tutto da attribuire al
fattore igienico, ma forse anche un po’ a quel senso di sfiducia verso oggetti
di produzione industriale, che soverchiano i nostri oggetti tradizionali,
simboli di identità e di un’appartenenza che per secoli ci ha reso singolari.
Paolo Demuru
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