Quando ero bambino si era
ancora soliti sedersi le sere d’inverno presso il camino acceso a sgranocchiare
arachidi o arrostire castagne sotto ceneri e carboni roventi. La luce, a volte
scarseggiava, o era solo quella del fuoco, acceso per cuocere vivande e per
creare un angolo caldo che conciliasse la riunione della famiglia dopo cena.
In quei momenti le persone
più anziane erano solite ricordare eventi del loro passato, vissuti o
tramandati oralmente. Si trattava sovente di eventi tragici, ironici,
intrecciati di fantasmi ed eroismi, spesso gonfiati dal recitante del momento;
si trattava di intrattenere i bambini e conciliare sonno agli adulti che,
spesse volte, organizzavano l’andata a dormire prima della fine della novella.
Fra le tante me ne viene
alla mente una risalente a parecchi anni prima che io nascessi...
Erano i tempi in cui la
strada Oschiri-Tempio era piuttosto giovane ( forse trentenne, si ricorda che
detta via era stata aperta intorno al 1870) e da Tempio scendeva a passo non
certo sostenuto un uomo sulla cinquantina. Era da parecchio tramontato il sole
quando aveva superato le ultime case della cittadina ma la notte era stellata e
poi la luna, non ancora sorta, avrebbe schiarito la via larga e sgombra da
mezzi. Superato l’abitato di Fundu di
Monti si apprestò ad affrontare le ultime curve, in ombra prima di raggiungere L’Utaru,
l’attuale Passo del Limbara. Doveva raggiungere l’Agnata, località non distante dalla cantoniera di Gaddhau.
Arrivando al detto passo si trovò la luna
al fianco sinistro, tutta d’argento, con il suo sorriso malizioso come quello
di chi fa promesse sicure ma da onorare sempre in data da destinarsi. Il
passante calzava scarpe pesanti con la suola chiodata pantaloni di fustagno, la
camicia bianca senza colletto a punte sotto un gilet (lu cansciu) di velluto e, infine, la giacca di velluto anch’essa.
Portava sulla spalla sinistra una piccola bisaccia in lana bianca e con dei
ricami a colori con all’interno poche
spese (l’ncumandìzii) appena
fatte in città. Si era di mezza stagione, ma era prudente portare il capo
coperto, specie se incombeva l’umore della sera; infatti, calzava il lungo
cappuccio nero (la barretta) che li
arrivava fino alle spalle.
Aveva con se un oggetto particolare, allora molto
comune, di cui raramente si faceva a meno. Quest’oggetto infondeva sicurezza e
solennità, esigeva riguardo e rispetto, era per così dire un amuleto. Era
capace di dare coraggio e forza. Da molti era usato con grande rispetto e tanta
cautela, da altri anche a sproposito. Era il suo fucile e lo teneva appeso alla
spalla destra, sempre pronto per essere impugnato in maniera facile e veloce in
quei momenti in cui l’uso o la difesa personale potevano essere ritenuti
assolutamente necessari.
Ma torniamo al soggetto,
ancora alle prese con la dolce luna del Passo che si apprestava ad avere
proprio di fronte, quando per un involontario sguardo verso destra intravide
come una figura scura dietro di se; sorpreso guardò la strada davanti a lui
ampia e chiara, a tratti coperta di ghiaia granitica e, molto insospettito,
sfilò l’orologio dal taschino del gilet. Abbassando lo sguardo vide le due frecce sul dodici. Era
mezzanotte, l’ora dei fantasmi, delle anime purganti e di non so quali altre
incombenze che dissuadevano assolutamente dal farsi sorprendere in certi siti
in quell’ora. Voltò, nuovamente, la coda dell’occhio con tanta circospezione e
vide ancora la figura nera dietro di se ancora più grande e minacciosa di
prima; sembrava raggiungere le sue calcagna, gli sembrò che stava per
aggredirlo, agguantarlo, ingoiarlo... Non c’era troppo tempo da perdere: o
vincitori o vinti. Scese l’arma dalla spalla e con fare deciso e rispettoso
segnò con il pollice destro una croce
sulla base delle canne... sollevò i martelli, voltatosi di scatto scaricò, con
tutta la potenza delle polveri contenute il carico di piombo che stava
all’interno delle canne su quell’ombra silenziosa che lo seguiva.
Le pallottole roventi si
infransero in infinite schegge sul pavimento duro della strada con atroce
miagolio e l’uomo, riportata in spalla la sua arma fedele, riprese il cammino
verso l’Agnata. Sicuro che il maligno
non fosse più minaccioso dietro di sé proseguì senza dare peso all’ombra che lo
seguiva ancora.
La luna si affaccia sempre
sul passo del Limbara con la sua luce e forma ancora ombre impalpabili e
innocenti come allora e qualche segno di piombo non manca.
Oggi, osservando il cartello che
indica la località che sta sulla collina, ad ovest del passo impallinato, verrebbe
da pensare: o qualche scheggia di quelle antiche pallottole ancora vaganti lo
ha colpito, oppure qualche superstizioso dei giorni nostri ha pensato di
sbarazzarsi di chissà quale maligno alla maniera del passato.
Paolo Demuru
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