Massi per aia |
Andiamo con calma, ma con
dovuta decisione, a scoprire il significato e l’uso di alcune pietre o massi di
modeste proporzioni. Se dovessimo fare riferimento al peso di tali massi
possiamo dire che esso si poteva aggirare sui 40, 50 chilogrammi .
Generalmente erano preferiti e scelti di forma allungata e che avessero verso
una estremità qualche strozzatura; qualora non ci fosse si cercava di farla con
l’ausilio di martello e punta in acciaio. Anche se non erano pezzi di
particolare valore, venivano conservati con cura dopo l’uso, per un riutilizzo
che poteva avvenire dopo un anno e per diversi anni. Non erano opere d’arte in
quanto la mano dell’uomo poco vi interveniva ma erano utili e preziosi per il
lavoro che contribuivano a svolgere e per la storia umana che oggi potrebbero
essere in grado di ricostruire per i nostri nipoti.
Spesso trascorrevano un
intervallo di inutilità di circa un anno esposti ai lati di antiche arene
circolari con il pavimento in lastre di granito o spiazzi in terra battuta dove
la gramigna faceva di tutto (con le sue radici penetranti e fitte) per
compattare il terreno.
Le arene erano le antiche
aie come pure gli spiazzi dotati di gramigna, benché più semplici, ma nelle cui
entrambe aree venivano ammassati i covoni
di grano, orzo o avena in attesa di essere mondati da paglia e pula. Stiamo
parlando di lu rotu, pavimentato in
granito (rotu a impetratu) o terra
battuta (rotu a pamentu): in
quest’area i covoni venivano liberati dal laccio che li recingeva e il
contenuto sparso alla rinfusa (a un’agliòla)
per l’operazione di triturazione delle spighe e liberazione delle cariossidi.
L’operazione, semplice ed
usuale in passato, avveniva con un concerto contemporaneo di vari mezzi e
persone. Venivano introdotti nell’arena alcuni gioghi di buoi che con i loro
zoccoli ferrati compivano già un certo lavoro ruotando in cerchio sulle spighe
arse, le scarpe chiodate dei massai che conducevano il giogo compivano
anch’esse la loro parte. Ad ognuno di quei massi o petri d’agliola veniva assicurata alla strozzatura una fune per un
capo mentre l’altro legato al giogo e quindi trascinati dallo sforzo dei buoi.
Tutto questo movimento, cadenzato e ordinato era capace di conseguire lo scopo
già accennato.
Oggi l’agliòla è
stata sostituita dalla trebbiatura e quest’ultima dalla mietitrebbia ed,
infine, dall’importazione del grano da paesi lontani questo mio excursus sa
quasi di fiaba. Oggi quelle pietre non avrebbero più senso, se non quello di
essere i testimoni di un passato ripetutosi per millenni, sorpassato tuttavia
velocemente dalla tecnologia e dal mercato mondiale, e sempre più monopolizzato,
il quale senza riverenza alcuna travolge le civiltà, la storia e... l’uomo
stesso.
A Balascia, nell’area del
Museo, fino ad una decina di anni fa vi erano tre petri d’agliola, poggiate al vecchio muro ed a una cinquantina di
metri dai ruderi del Nuraghe Ruju, resti indiscussi di memoria, attigui allo
spiazzo ricco di gramigna dove per anni hanno svolto il delicato compito a cui
la nostra cultura ed identità li aveva chiamati. Di quelle tre testimonianze
per noi soltanto inconfondibili, due sono scomparse da tempo, asportate...
trafugate da mani insensibili, appropriatesi di oggetti, che allontanate dal
loro naturale contesto e private della loro storia, sono senza valore alcuno.
L’altra, scampata all’unghia lunga del precedente atto indegno, è da tempo difficile
da localizzare. Sarà ben nascosta dalla vegetazione e quindi al sicuro da
intenzioni indiscrete o sarà finita anch’essa tra misere mani?
Sarò felice di smentire
quest’ultima mia insinuazione quando l’avrò riscoperta tra i rovi, sana e
salva, disposta a raccontarmi ancora la sua storia; allora io sorriderò
volentieri perché il suo passato è stato anche il mio!
Paolo Demuru
Paolo Demuru
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