Alveari, 1986 |
Ricordo di aver trascorso
un’ infanzia felice per quanto attiene alla salute: lungi da raffreddori,
influenze o altri disturbi tali da ridurre il mio quotidiano vivere a contatto con
la natura, le piante, l’orto, il torrente gli animali del cortile e le attività
a ciò attinenti ed, infine, i miei trastulli personali fatti di invenzioni e di
prove. A volte credo di avere ancora dentro di me qualcosa di quei momenti per
me importanti ed utili, di quelle esplorazioni, di quelle scoperte. Costruire
giocattoli e manipolare arnesi erano il mio ideale passatempo nei momenti in
cui non dovevo accudire ad altre incombenze che mi venivano chieste o richieste
nel lento trascorrere di quegli anni.
Accompagnavo mia madre,
una delle tante volte, nell’area dove lei custodiva e curava gli alveari con
severa premura e con tanta maestria e disinvoltura, tale da evitare spesso
misure precauzionali particolari durante l’approccio con le api. Queste non
sempre erano di umore generoso e compiacenti nei confronti degli interventi
dell’uomo. Sono esseri nobili e, soprattutto laboriosi, tanto da non sopportare
facilmente intralci nelle loro intenzioni precise e profonde durante la loro
vita breve ed intensa. Sono severamente organizzate in caste, in strati sociali
con possibilità di salire dalle condizioni più infime, diremmo, a quelle più
elevate. In pratica si comincia da addette alle pulizie, per divenire
cercatrici di miele affrontando le avversità delle stagioni, logorandosi di
operosità, coprendosi di onore e fatiche che accorciano, a loro insaputa, la loro
stessa esistenza. Esse possono pure accedere a divenire fuchi o regine per
meriti o scelte a noi piuttosto sconosciute e attendere alla riproduzione di
nuove famiglie, nuove generazioni. Il vivere delle api è affascinante e
incorruttibile, prodigo e virtuoso. Forse anche tra loro pullulano ingiustizia
e tradimento ma, a mio modesto avviso, l’innocenza e la sincerità hanno la
meglio. Il loro costume è, comunque, invariato da millenni; la loro battaglia
non credo che sia per accaparrarsi assurde prebende ma quel titolo di nobiltà
individuale a cui l’uomo spesso non aspira perché vittima di ben più infima
ricchezza.
Proprio da queste maestre
di vita seguivo mia madre una mattina tra aprile e maggio di tanti anni fa,
forte d’innocenza, difeso dall’ingenuità e, non meno, dal rispetto e dai
riguardi che ero abituato nutrire nei loro confronti ... Sotto le sughere trovammo,
mentre i raggi del sole vi penetravano obliqui, uno sciame in attesa e in
frenetica ricerca di nuova dimora. Dalla loro attività mia madre capì subito
che le api erano alla ricerca di una sistemazione definitiva da qualche giorno
e, pertanto, manifestavano chiaramente un certo nervosismo. Cercammo un alveare
in sughero disponibile che durante i mesi precedenti era stato risistemato e mia madre vi strofinò all’interno
dei rami di lavanda per far sì che il bell’aroma potesse entrare nelle grazie
delle dorate inquiline e loro prendervi posto volentieri e facilmente.
Cominciarono ad introdursi al suono ritmico di un legno percosso sul coperchi
dell’alveare rustico. Una sorta di marcia trionfale per un esercito di quattro
o seimila insetti nervosi ed impazienti che si apprestava alla nuova casa ma
che in parte volava non convinto attorno all’area delle operazioni. Mi
avvicinai un po’ troppo e forse intercettai le effusioni di alcune che, con
l’ausilio di altre si avventarono sulle mie parti scoperte con i loro
pungiglioni affilati. Mi punsero in tante e mia madre dovette sospendere il
delicato impegno per venirmi in aiuto e spingermi verso l’ombra con l’ausilio
di una torcia di stoffa accesa affinché il fumo le facesse desistere dalla
contesa.
Finita l’operazione di
raccolta dello sciame e posizionato in fretta l’alveare nell’apposito spiazzo
sotto la sughera, rientrammo con premura e fatica a casa. Mia madre mi lavò col
succo di limone nelle parti punte, mi mise a letto chiedendomi di fare di tutto
per rilassarmi e dormire e tutto sarebbe tornato come prima. Chiusi gli occhi e
mi coprii perché un freddo strano mi pervase. Sentivo le parti punte
leggermente doloranti, mentre un po’ di sonno mi sembrava sopraggiungere e un
sogno lungo e confuso mi accompagnò per alcune ore. Di pomeriggio mia madre mi
destò e mi propose di mangiare qualcosa: una bella fetta di pane con miele!
Mangiai volentieri e con appetito e cercai di raccontare il lungo e confuso
sogno, che a tratti, non riuscivo proprio a ricordare. –Hai avuto un po’ di
febbre -commentò mia madre- è per questo che sognavi-
La convalescenza durò fino
alla fine della dolce merenda poi tornai ai miei trastulli e, in seguito, ad
aiutare a custodire gli alveari ed estrarne il nettare dolce e terapeutico.
Io, per tanti anni ancora
rimasi della convinzione che la febbre era un sogno lungo, penoso, talora
ripetitivo, ma difficile da ricordare.
Paolo Demuru
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