La diga del Coghinas, foto dell'autore, 1986 |
Immaginare quale
impressione possa aver portato nella mente dei pastori galluresi la costruzione
della diga sul Coghinas (illu Riu Mannu)
non è cosa semplice né scontata. Tuttavia qualche cenno sarà possibile annotarlo.
Lo sbarramento grigio che siamo soliti osservare è sorto intorno al 1926 per
frutto d’ingegno e di fatiche umane. Una immensità di persone vi presero parte.
Mai prima d’allora fu vista o immaginata tanta gente ingegnarsi a vario titolo
nella stretta di Muzzoni e in tutta
l’area di la Gaddhura d’Oscari. Vi
arrivò la corrente elettrica proveniente dalla appena costruita diga di S.
Chiara sul fiume Tirso attraverso un lungo elettrodotto. Vi arrivò una strada
con deviazione dalla Oschiri Tempio. Vi arrivarono mezzi imponenti, materiali
mai visti, né pensati, trasportati da carri e camion impolverati e con lezzo di
olio e di benzina. Vi giunse una moltitudine di uomini (cinquemila), parecchi
con donne e bambini bisognosi di prendere alloggio in provvisorie baracche che
si sarebbero trasformate in case e, successivamente, in un villaggio.
Gli
uomini erano figure esperte nei lavori di sbancamento, di cava, di miniera;
provenivano dal Sulcis, dai 18.000 che avevano costruito la diga sul fiume più
lungo e più ricco di acque dell’Isola e tutti, in questa vallata, si
adoperarono in turni piuttosto faticosi. Scavarono il letto del fiume,
penetrarono per una cinquantina di metri nelle due sponde, minando ed estraendo
granito. Vi piazzarono le basi ed eressero il potente muro che avrebbe dovuto
contenere una quantità come 250 milioni di metri cubi del liquido più prezioso
nel mondo. Gli ingegneri Perotto e Faconti studiarono e diressero i lavori di
costruzione del ponte agile e snello su doppia fila di colonne e un bell’arco
centrale per supportare la strada di collegamento da Oschiri a Tempio,
poiché quello esistente doveva essere
necessariamente sommerso.
La nuova centrale doveva
produrre energia per le industrie, luce per le case ma molti della Gallura e
dell’oschirese non né godettero Videro scomparire sotto le acque dell’invaso
terre e pascoli fino ad allora fruiti; videro scomparire vigne e case e i magri
compensi non risarcirono certo il mal di cuore per le reali mancanze. Noi non
abbiamo assistito a quelle rinunce, siamo nati vedendo ed ammirando quella
distesa argentea e cupa brulicante di pesci e sorvolata da gabbiani e
cornacchie. Avvicinandoci alle rive vi abbiamo ammirato la grande distesa
increspata appena dalla brezza, vi abbiamo notato i monti capovolti,
specchiarsi le nuvole, brillare il sole e pure la luna. Vi abbiamo visto le
nostre immagini a testa in giù, un po’ come la nostra storia che ci ha
preceduti che poco e male ci è stata raccontata. Non più una ricchezza o
riserva per chi in prossimità vi era nato e cresciuto ma una disponibilità, una
comodità per comunità o singoli lontani
e ignari degli uomini e dei sacrifici che si sono consumati lungo le due sponde
di lu riu Mannu. Oggi siamo soliti
volgere lo sguardo al lago, come se fosse da sempre esistito tra colline sempre
meno verdi, sempre più brulle, senza tante meditazioni che ci possono apparire
inutili o noiose ma non facciamo a meno di vederlo d’argento o d’azzurro a
seconda della giornata dell’ora, della posizione del sole, del nostro umore.
Qualcosa mi stimola a
concludere in un certo modo e mi sia veniale se mi permetto di svelarlo: sotto
quella riserva d’acqua vi è una parte della nostra storia, del nostro passato,
che è costato ai nostri nonni fatica e attese, forse ad un tratto interrotte.
Da quella massa viva e in continuo movimento che lambisce graniti e sabbia che
avanza e si ritira, a seconda della stagione, potrebbe nascere un domani
qualcosa di tanto ambizioso quanto oggi impensabile. L’ambiguità e l’arrivismo
non hanno cuore, l’ingegno e la
creatività non hanno confini.
Paolo Demuru
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