Balascia, massi per aia |
Presso il nuraghe Ruju,
a una quarantina di metri, nel pianoro verso sud, vi era uno spiazzo dove cresceva
rigogliosa una vasta colonia di gramigna. Legava il terreno a modo che
qualunque traffico non ne distoglieva il suo tessuto dal suolo. I nostri
antenati vi portavano i covoni del grano appena mietuto e li ammassavano al
confine dello spiazzo.
Quando
decidevano di mondare il grano dalla paglia ossia separare le cariossidi
dalle spighe ammucchiavano i covoni slegati al centro dello spiazzo.
Aggiogavano buoi, anche diverse paia e trainando un masso che legavano
con una fune al giogo, con andamento circolare sul mucchio cercavano di
sminuzzare e frantumare le spighe. Gran parte dell’opera era risolta anche
dagli zoccoli ferrati dei buoi stessi e in minima parte dall’uomo che li
seguiva. Questa operazione durava finché le spighe non erano tutte frantumate e
le cariossidi liberate dall’involucro legnoso.
A
questo punto i buoi venivano allontanati e con dei forconi asportata tutta la
paglia e ammucchiata in un lato sottovento. Il lavoro doveva essere eseguito nelle
ore più calde affinché l’umidità della notte non influisse negativamente
sulla frantumazione delle spighe.
Il
caldo e la polvere portavano a uno sforzo notevole, per cui, data anche l’ora,
gli operatori si arrendevano al pranzo quasi augurale poiché, a breve avrebbero
finalmente messo al sicuro la fatica dell’annata. Non era proprio così. Per
separare il grano dalla pula era necessario attendere il pomeriggio, quando
la brezza si faceva sostenuta e gentile per sollevare con pale di legno e abile
gesto grano e pula per la separazione. Tutto doveva avvenire nel più breve
tempo possibile se si voleva evitare che formiche ed uccelli appagassero le
loro voglie prima del contadino.
Avevamo
preservato per tanti anni tre dei massi usati allo scopo (nei massi
veniva scavato a mano un solco per legarvi la fune del traino) ma dei tre
possiamo mostrarne solo l’immagine poiché due di essi furono rubati negli
anni scorsi.
È
l’ultima testimonianza di un’attività millenaria scomparsa per sempre.
Paolo
Demuru
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