"Lu focu di Balascia", acquerello, Paolo Demuru 2016 |
Si,
è vero, questa notte ho avuto qualcosa che, da bambino, avrei chiamato incubo
ma non essendolo più per ragioni anagrafiche, lo chiamerò sogno o reminescenza
dell’inconscio. Mi pareva di percorrere la strada che da Tempio porta al passo
del Limbara; ero in una vettura strana, senza cappotta, che guidavo sì e no tra
l’ombra dei pini e violenti spiragli di sole penetranti tra di essi.
Il
sole andava sempre più adagiandosi sull’orizzonte sanguigno e triste quando sul
pianoro cominciai a notare siepi fumanti e subito solo carboni e cenere e
scheletri anneriti. Il silenzio era rotto dal rumore cupo dei mezzi aerei che
tentavano di lanciare acqua sul fronte del fuoco che scendeva ormai un canalone
verso Est, e da un flebile grido disumano proveniente forse dagli animali arsi
vivi, dagli alberi inceneriti, o anche da me stesso, impietrito da tanto
sfacelo. La notte sopraggiunse quasi all’istante.
Quella
macchina che per un buon tratto mi aveva accompagnato non c’era più. Ero
solo in un deserto che diveniva sempre
più cupo e desolante. Fiammelle accese nei tronchi erano sempre più evidenti
nel venire meno la luce del giorno. Ricordo di essermi trovato sulla via per
Tempio, presso lu Naracheddhu (i
ruderi del nuraghe Roccu) a pensare a quanto ossigeno bruciato, a quante piante
che ne producevano certa quantità carbonizzate, a quanta cenere e calore
inutile prodotto; mi veniva da pensare alle sorgenti che si sarebbero
prosciugate, a quanta pioggia in meno avremo dovuto avere, all’avanzata
impetuosa del deserto, a quel paesaggio che non avrei più rivisto. La natura
aveva elargito un paradiso e l’uomo ne aveva fatto un pauroso inferno.
Verso
Nord, dove volgevo lo sguardo, il cielo era sgombro e vedevo arrivare verso me
delle stelle cadenti, veloci e luminose che giungevano a lambire la terra.
Erano tante, erano numerose. Erano anch’esse brace e faville ed erano forse il
residuo di un disfacimento planetario, ma esse non portavano né danno né dolo.
Erano gli ultimi segnali di un ordine o di un riequilibrio dell’universo o
manifestazione del suo respiro, del suo essere che, sotto forma di luce,
giungeva fino a me, quasi a consolare il mio stato. I lumi sui ceppi alle mie
spalle erano i segni tangibili delle debolezze o delle avidità umane che
abbassano l’uomo a ricorrere ad odio, invidia o ai trenta denari…
…E se n’è andato anche agosto
in
fumo, in fiamme, in tremor’e crolli;
mute
campane, neri piani e colli,
deserto
e macerie ed alto il costo.
Pochi
per goder, troppi per patire
tra ‘l
mare caldo e la tant’arsura
e
qualche tuono che non porta paura,
poco
udito ne l’aer pomeridiano.
Guardano
le stelle, se ne precipitano
anch’esse
in gran lume, in gran stuolo;
vengon
da lontano, toccano ‘l suolo
dicendoci,
tra fuoco e calcinacci:
che,
c’entra l’uomo? veniamo anche noi,
del cel
fumo e schianto, a lagrimar con voi.
Mi
svegliai d’improvviso e mentre mi veniva in mente questo sonetto ripresi sonno
poiché, in realtà, non ero presso lu
Naracheddhu ma bensì nel mio letto a cercare una posizione più adatta alla
mia schiena, divenuta un po’ delicata.
Paolo Demuru